domenica 13 maggio 2012

ALESSANDRO FANTINI E L'ARTE "MULTIMEDIANICA"

Alessandro Fantini nasce nel 1978 nella Val di Sangro, in Abruzzo. La sua passione per l'arte e la scrittura si manifesta fin dall'infanzia, ha una formazione artistica da autodidatta e ha subito l'influenza di pittori come    De Chirico, Magritte, Ernst e Dalì. Dal ’95 al 2006 espone i suoi quadri ad olio in personali, collettive e performance allestite entro i confini della propria regione richiamando l’attenzione della carta stampata e della Rai. Dal 1999 al 2001 milita in alcune band art rock locali come gli "Aficion" e i "Salvador Barret" da lui fondati, nel ruolo di lead singer e autore dei testi. In seguito intraprende una sua carriera solista come cantautore e compositore di colonne sonore dei propri cortometraggi. Nell’estate del 2004 dirige e produce il mediometraggio “Login Praeneste” ambientato a Roma. Nel settembre del 2004 un suo autoscatto realizzato nell’atelier viene pubblicato nel booklet del disco “AERO” del compositore francese Jean Michel Jarre. Nell’ottobre del 2005 consegna personalmente un ritratto di Stanley Kubrick alla vedova Christiane Kubrick. Nell´aprile 2006 il canale Sky Family Life TV trasmette il suo corto “Tiranti Transit”. Nel maggio 2006 è alla Fiera Internazionale del Libro di Torino per partecipare alla presentazione della collana “Fantagraphia” in qualità di illustratore e co-autore della raccolta “Il Velo della Notte.” Nel 2007 pubblica il romanzo fantasy “Endometria - Il seme della carne” nella collana Fantagraphia e illustra “Il Bosco di via Quadronno” di Dario Malini. Nell'ottobre del 2007 espone una selezione di dipinti all´interno della collettiva Art in Mind presso la Brick Lane Gallery di Londra. A dicembre il suo corto “La Strada per Shakti” viene trasmesso nal programma "Mini Movie" sul canale EcoTv Sky 906. Il suo video artistico “aVoid” viene selezionato dalla giuria presieduta da Enrico Ghezzi per il “Digital Awards 16mm Film Festival 2008” di Roma e per la sezione “Tiscali in Shorts” del festival internazionale “I've seen films” diretto da Rutger Hauer. Nel 2008 pubblica la sua prima monografia d'arte in lingua inglese comprensiva di oltre dieci anni di produzione pittorica dal titolo “The Sinovial Gaze – The art of Alessandro Fantini” edito e distribuito da Lulu.com. Nel 2009 dirige il video musicale “The Sky” per il batterista di fama internazionale Lorenzo Tucci. Nello stesso anno presenta il progetto della miniserie “Le Cornici della Pioggia” nel programma “Puntata Zero” in onda su Cinquestelle Sky 906. Partecipa al festival di Cannes 2009 in qualità di regista e sceneggiatore insieme all’attrice Rona Hartner sfilando sul “red carpet” per la prima internazionale del film di Terry Giliam “The Imaginarium of Doctor Parnassus”. A fine estate pubblica il romanzo "Cavalli marini sotto sclerotica" distribuito da Lulu.com Nel corso del 2010 il mediometraggio “NEPENTE” girato a Roma viene trasmesso in due puntate all'interno del programma “You on TV” prodotto da Cinecittà 3 e trasmesso su scala nazionale su una vasta rete di canali privati . Nello stesso anno dirige il suo primo lungometraggio “EDONISM”, un thriller dalle venature fantascientifiche ambientato nella città di Tokyo e proiettato in numerosi eventi pubblici organizzati nella capitale nipponica tra il 2010 e il 2011. Nel 2011 realizza un cartone animato per il video musicale del brano "Hope" di Lorenzo Tucci, tratto dal suo ultimo album "Tranety". Nello stesso anno pubblica una nuova monografia d'arte a colori in lingua inglese dal titolo "Presque vu - Atlas of Untold" in vendita on line su Blurb.com Opere d'arte di Fantini: http://afantini.daportfolio.com http://www.saatchionline.com/profiles/portfolio/id/8120 Cortometraggi e video musicali: http://www.youtube.com/user/781108 http://vimeo.com/channels/afantide Discografia: http://afanalessandrofantini.bandcamp.com http://soundcloud.com/afan-alessandro-fantini Bibliografia: http://www.blurb.com/my/store http://www.liberodiscrivere.it/biblio/scheda.asp?OpereID=129348 http://www.stores.lulu.com/store.php?fAcctID=2578005
Nella tua vita hai praticato tutte le arti, scrittura, pittura, cinema e musica. Hai l'ambizione di realizzare un'opera d'arte totale?
In effetti, non sarebbe inesatto dire che l’anelito al “gesamtkunstwerk”, l’ideale di Richard Wagner, abbia rappresentato finora la vena carsica sottesa a tutta la mia vicenda artistica. Dai primi esperimenti di arte “pseudo-rupestre” praticata con le dita sui vetri appannati della cucina di casa durante l’infanzia, agli ultimi progetti di web-serial e narrativa ipertestuale, a sostenere la mia urgenza espressiva è stata sempre quella tensione allo sconfinamento reciproco di ciascuna forma creativa in quelle limitrofe, al fine di esaltarne le qualità poetiche mediante il loro continuo ricombinarsi. Alla base della mia volontà d’arte tuttavia non c’è mai stato l’intento programmatico di calcare le orme dell’autore del “Parsifal”, anche perché l’esito sarebbe più che altro parodistico, privo di quel coefficiente di spontaneità irrazionale implicita in ogni autentica azione creativa. Di conseguenza coniare il neologismo di “arte multimedianica” mi è stato utile per distinguere il mio personale approccio all’atto creativo da quel “trend” di carattere commerciale che negli ultimi anni è diventato l’eclettismo multimediale praticato da personaggi pubblici che dopo essersi affermati nella musica, nella letteratura, nella politica o come icone televisive, hanno spesso gioco facile nel cimentarsi in altri rami e nel contaminarli senza seguire una coerente necessità o progettualità estetica. Tra le varie opere che potrebbero esemplificare il concetto di “multimedianicità”, credo che “Iconosfera”, il “web serial” avviato l’anno scorso e concepito espressamente come “fiction” per “atti episodici on line”, sia quella che meglio approssima lo stadio pre-razionale di quel “meticciato” delle arti dove teatro, letteratura, fiction, musica, fotografia e animazione concorrono a plasmare una visione “amniotica” della condizione umana, allo stesso modo di un medium o di uno sciamano che fa di se stesso tramite corporeo di apparizioni foriere di misteri che travalicano le nozioni di realtà, materia e spazio-tempo. Non a caso il “log line” del serial è: “A parlare resteranno solo le immagini”. Ammiccando sia a “Solaris” di Andrei Tarkosvky che a “L’ultimo nastro di Krapp” di Samuel Beckett e all’“Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters, ciascun atto propone l’incontro tra il personaggio senza nome recluso in un bunker iper-dimensionale da me interpretato, con i resti mnemonici di uomini defunti che, avendo perso il ricordo delle proprie sembianze, rievocano i drammi della loro vita assumendo quelle del protagonista. Quest’ultimo è quindi condannato a confrontarsi continuamente con le repliche spettrali di se stesso, alla ricerca dei frammenti della sua identità dilaniata tra false e vere immagini, vite reali e miti della memoria. Come per tutti i miei film, anche la colonna sonora di “Iconosfera” è stata ideata per fungere da estensione e crisalide sinestetica del clima mentale che racchiude il serial, trasponendo in chiave musicale il “concept” dell’opera in una composizione in tre movimenti che può essere considerata tanto più autonoma come creazione artistica, quanto più essa resta elemento organico di una sorta di “sandbox”, un contenitore la cui ragion d’essere è sostanziata dalla compartecipazione di tutti i suoi contenuti. In questo senso il più diretto antecedente concettuale di “Iconosfera” potrebbe considerarsi “Opera Ville Diodati” un mio happening audiovisivo tenuto nel 2002 in un locale di Pescara, “Il Pozzo delle Arti”, con il quale attraverso la lettura di poesie, gesti teatrali compiuti indossando un tabarro nero, musiche elettroniche e l’esposizione e video-proiezione di dipinti, cercavo di evocare l’atmosfera morale che aveva presieduto alla nascita del romanzo gotico tra le mura della Villa Diodati dove Byron, Shelley e Polidori si sfidarono in una gara letteraria partorendo gli archetipi di Frankenstein e del Vampiro.

Quali sono i tuoi maggiori modelli artistici?

Pur essendo stato influenzato da vari referenti stilistici durante il periodo formativo del mio gusto estetico, sia nel campo della letteratura che nel cinema, da d’Annunzio a Easton Ellis passando per Lovecraft e Philip K. Dick, da Kubrick a Zulawski passando per Fellini e Lynch, al momento tendo piuttosto a fare dell’introspezione e dell’astrazione il mio modello privilegiato. Ad ogni modo, sebbene sia arduo e ingeneroso stabilire delle gerarchie, non esiterei a mettere al primo posto l’intero scibile umano e artistico di Leonardo da Vinci. In occasione di un Natale di oltre vent’anni fa ebbi in regalo un enorme volume dedicato alla sua opera pittorica che custodisco ancora gelosamente tra le miriadi di monografie della mia libreria. A impressionarmi subito non furono tanto i dipinti, i disegni o i codici fittamente vergati con la grafia speculare, ma lo sforzo sovrumano, in larga parte disatteso, che Leonardo aveva compiuto lungo tutto l’arco della sua vita nel tracciare una sua intima cosmogonia che lo stato di abbozzo di molte delle sue visioni più ambiziose rendeva ancora più eroico e romantico. In seguito fui affascinato da come quel senso di sublime incompiutezza, che trovava una mirabile rappresentazione nell’uso del chiaroscuro, affondasse le radici nel vissuto autobiografico, riverberandosi nell’enigma che circondava la sua personalità sessuale. Fu soprattutto nei capricci morfologici dei suoi disegni di tempeste, sezioni anatomiche, battaglie e caricature che individuai il germe di quella che sarebbe diventata la mia passione per le fantasticherie grafiche e le invenzioni visive così familiari anche alla pittura di Hieronymus Bosch e Pieter Bruegel. Nello stesso periodo ritrovai quell’arguzia calligrafica e maestria coloristica nelle illustrazioni impregnate di realismo fiabesco dedicate alla vita degli Gnomi dell’olandese Rien Poortvliet, artista che andrebbe annoverato tra i più grandi figurativi del ventesimo secolo. Fu lungo questo sentiero che raggiunsi infine il regno di feticci freudiani, iperrealismo delirante e compressioni atmosferiche di Salvador Dalì, a sua volta galvanizzato da Leonardo e Bosch nella gestazione della sua cifra stilistica. Nell’arte di Dalì, ancor più che in quella di Leonardo, la commistione tra drammi familiari, fobie, complessi sessuali, virtuosismo pittorico e narcisismo eletto a perenne “coup de theatre”, costituiva l’humus col quale alimentare una propria eccentrica mitografia. Il metodo paranoico-critico, inapplicabile da nessun altro artista all’infuori dello stesso Dalì, non era che un espediente pseudoscientifico col quale egli reinventava la vita attraverso l’arte mescolando l’una con l’altra, in modo da mettere al riparo la verità interiore dall’ipocrisia del mondo esterno. “Larvatus prodeo”, “procedo mascherato”, la massima di Cartesio posta a esergo del suo unico romanzo “Visi Celati” compendia perfettamente l’essenza della sua opera. Contrariamente a quel che si potrebbe pensare passando in rassegna la mia serie di tele realizzate tra il 1994 e il 1999, dove il suo ascendente appare più palese, molta della mia comunanza di vedute e d’ispirazione con Dalì risiede in realtà nel portato atmosferico, cosmico-nostalgico della sua “imagerie”, più che nella pedissequa riproposizione di puzzle visivi, stampelle, cavallette, uova volanti, formiche e volti liquefatti che ancora oggi brulicano in un’infinità di quadri di pittori che solo per questo ritengono d’essere autorizzati a proclamarsi neosurrealisti. A mio parere i veri epigoni della sua esperienza sono stati Wyeth, Balthus, Giger e Beksinski, tutti artisti che, a prescindere dalla minore o maggiore originalità nella scelta dei soggetti, per mezzo del loro stile hanno saputo restituire quella temperie di spaesamento e vertigine lirica propria degli stati ipnagogici, dei sogni lucidi, dei fantasmi mnemonici, delle allucinazioni melanconiche che tanta parte hanno avuto nell’elaborazione della fase poeticamente più felice della serie della spiaggia di Rosas. La padronanza tecnica e lo schietto acume con i quali Dalì seppe congelare i suoi turbamenti più profondi in piccole “diapositive dipinte a mano” sono ancora adesso il magistero più alto di cui faccio tesoro nella mia prassi creativa.
Quali difficoltà hai riscontrato nel mercato artistico italiano? Nonostante dal punto di vista economico “mala tempora currunt”, in Italia il mercato dell’arte è ancora abbastanza vivace come dimostrano il Miart di Milano e l’Arte Fiera di Bologna, a dispetto della poca o nulla considerazione di cui gode presso i mass media e le istituzioni prosciugate da fondi e competenze. Il vero problema consiste più che altro nella difficoltà di trovare dei galleristi, degli “art promoters” provvisti della lungimiranza e dell’intraprendenza necessari a consentire quella continuità del sostegno indispensabile alla prosecuzione di una ricerca estetica che non sia circoscritta al singolo evento. Si tratta innanzitutto di un dilemma di natura culturale e in Italia anche di una questione di condizionamenti politici. Il fatto che la nazione con la più alta concentrazione di beni artistici e architettonici del mondo si sottragga intenzionalmente dal promuovere e investire nel patrimonio del suo passato e in quello contemporaneo, denota un profondo “analfabetismo spirituale” nella sua incapacità di comprendere l’enorme potenziale occupazionale che questo comporterebbe in un periodo di compressione economica come quello attuale. E sempre più spesso di recente, quando dai piani alti non giungono più segnali di vita, spetta agli stessi artisti e ai fruitori dell’arte riappropriarsi di spazi dove celebrare la propria palingenesi all’interno della torre di Babele innalzata dalla follia del profitto. Proprio come sta avvenendo in questi giorni nella Torre Galfa di Milano, un grattacielo abbandonato di trentuno piani che un gruppo di giovani creativi sta sottraendo all’oblio dell’ottusità capitalistica, restituendolo gradualmente alla città attraverso la riqualificazione artistica dei suoi spazi deserti.  
L'Italia è aperta alle novità artistiche o, secondo te, ci sono dei problemi al riguardo?
A Giugno parteciperò con una mia tela alla collettiva internazionale “Green Blood” promossa da Alexandra Mazzanti e Tara McPherson all’interno della Dorothy Circus Gallery di Roma. Lo spazio diretto e curato da Alexandra, con le sue pareti di velluto rosso, la sua verve decorativa che abbraccia l’intera galleria dalla vetrina alle cornici veneziane delle opere esposte, si presenta come emanazione tridimensionale del regno del “pop surrealism” che vi viene presentato durante tutto l’anno in una serie di personali e collettive in cui figurano i nomi più rappresentativi del movimento, da Mark Ryden che ne è considerato il vessillifero per antonomasia, a Joe Sorren e Leyla Ataya ed ad altri giovani talenti italiani. Penso sia di per sé una prova più che significativa che in Italia sia ancora possibile trovare galleristi sensibili ai nuovi fermenti artistici in atto sia dentro che fuori i confini nazionali, dotati di gusto e della determinazione ad affermarlo a onta del vacuo snobismo e del pressapochismo che anima tanti “locatari” che in Italia e all’estero si fanno pagare per ammassare cumuli di croste in vere e proprie botteghe degli orrori.
E' importante la collaborazione con altri artisti?
Direi che è vitale per la maturazione della propria visione. Anche nel tumultuoso e indefinito mondo dell’arte vale la regola delle affinità elettive, specie quando risulti all’apparenza inapplicabile. Ad esempio la prospettiva di una collaborazione con il batterista e compositore Lorenzo Tucci sulla carta suonava alquanto audace, considerando come nella mia arte visiva e nel mio stile videografico non vi sia alcun riferimento al jazz e prevalgano piuttosto toni gotici, accenti onirici e atmosfere da tregenda più assimilabili alla musica psichedelica e dark ambient. Quando tre anni fa mi chiese di dirigere il video per il suo brano “The Sky”, capii però che misurarmi con questo genere mi avrebbe permesso di arricchire di nuove ottave la mia “scala visionaria” producendo opere più solari e briose pur conservando la dominante nostalgico-mistica di quelle precedenti. Non a caso girai molte delle scene di quel video nei pressi delle locations costiere usate per cortometraggi più oscuri e criptici come “La strada per Shakti” e “Colostro”, saturando il più possibile la gamma cromatica offerta dalla luce meridiana per amalgamare le sequenze con i cartoni animati che avrei inserito in post-produzione. Per il secondo brano “Hope” che Lorenzo mi ha proposto l’anno scorso, mi è parso consequenziale virare completamente sul video d’animazione, utilizzando alcuni dipinti come fondali su cui dare vita ai disegni per inanellare una microfiaba alla Miyazaki sulle note della melodia struggente e mestamente ottimista.
Qual è il compito principale dell'arte?
Nessuno. La sua attrattiva e la sua legittimità consistono nella sua meravigliosa, incondizionata mancanza di finalità. Tutto ciò che esula da questa gratuità, può solo essere, nel migliore dei casi, sfoggio di abilità tecnocratica, mansione industriale, asservimento dell’ingegno a scadenze e rapporti di lavoro. Durante una mia mostra ebbi a citare Oscar Wilde che riteneva come tutta l’arte fosse completamente inutile. Uno dei presenti rimase contrariato e mi aggredì verbalmente. Quando gli chiesi di spiegarmi in poche parole quale fosse la sua funzione annaspò per qualche secondo tra vaghe definizioni e infine lasciò la sala.
  Da dove è nata la tua passione per la pittura?
Sarebbe più appropriato dire che si è manifestata dopo essere stata abortita quando si trovava al suo stato embrionale. Per tutta l’infanzia ho coltivato con ostinazione la scrittura e il disegno, nutrendo la convinzione che la pittura a olio oltre che a essere una forma artistica ormai obsoleta e anacronistica, non fosse in grado di veicolare con la stessa efficacia semantica di un film o di un fumetto le storie e le idee che andavo elaborando tra letture, passeggiate solitarie e sogni ad occhi aperti. Nondimeno col tempo la scoperta di quadri come “Il Trittico delle delizie” di Bosch e “La Vocazione di San Matteo” di Caravaggio sulle pagine dei libri dei miei fratelli, cominciò ad inocularmi il dubbio che dopo secoli di capolavori e sperimentazioni quel mezzo non avesse ancora del tutto esaurito la sua carica dirompente. A otto anni, mentre insieme a un mio compagno di giochi cercavo di prendere dimestichezza con la pittura a tempera, mi spruzzai accidentalmente mezzo tubetto di colore negli occhi. Dopo lunghe e frenetiche ripuliture riacquistai la vista, ma persi il mio interesse per la pittura. Ad apertura delle lezioni di terza media, il mio professore di Educazione artistica esordì con l’affermare solennemente che apprendere la tecnica a olio avrebbe richiesto un corso di studi parallelo a quello didattico, convincendomi a rinunciarvi sia perché non mi riteneva capace di maneggiare un pennello, visti i risultati disastrosi con la tempera, sia perché vedeva nelle mie abilità disegnative nulla più che il potenziale di un vignettista. Pochi mesi dopo, passeggiando sul lungo mare di Pescara all’imbrunire, passai di fronte agli espositori di una libreria all’aperto. Rimasi subito colpito dall’immagine di copertina di un libro in cui un uomo dalla carnagione smunta scrutava il terreno ai suoi piedi, stagliandosi contro un assolato paesaggio semidesertico che si estendeva a perdita d’occhio fino alla linea del mare. Si trattava del quadro di Dalì “Farmacista dell’Ampurdan che non cerca assolutamente nulla”, un’opera scevra da qualsiasi orpello surrealista, ma che racchiudeva in realtà la quintessenza di quel “sentimento fotografico” di vertigine spaziotemporale che mi avrebbe persuaso in via definitiva della validità della pittura a olio. Pochi giorni dopo, senza seguire alcun corso di pittura né perdere tempo sopra manuali, ero già alle prese con la mia prima tela. Ero ormai risoluto nel formulare in solitaria il mio metodo facendo affidamento esclusivamente sulla pulsione antipittorica ad assecondare la qualità ultra-plastica della mia fantasia eidetica. Ancora oggi la mia attitudine verso la pittura deriva dal desiderio di annullarne la pittoricità attraverso il controllo assoluto della perizia tecnica acquisita in assenza di teoremi tecnici. De Maistre affermava che “Ogni scienza nasce dal mistero”: anche la pittura, essendo a suo modo una scienza senza regole assolute, nasce e finisce con un enigma o, per meglio dire, è esso stesso un Mistero, il “mysterium tremendum et fascinans” di cui parlava Rudolf Otto, attraverso il quale ci è dato rasentare il senso del numinoso, del Divino.

La pittura può narrare storie come la scrittura e il cinema?

Certamente. Anzi, nel caso della pittura figurativa il portato narrativo può divenire persino più suasivo di quello letterario e cinematografico, nella misura in cui è in grado di comprimere la dimensione spaziotemporale in quella iconografica, raffinandone la linfa simbolica nel congelamento lirico dell’istante. Quando l’artista armonizza soggetto, composizione e stile attingendo alla materia del proprio vissuto, senza scadere nel didascalico e nell’illustrativo, l’immagine finale può offrirsi allo spettatore come un fotogramma dal respiro “olografico” più che oleografico, fornendogli quell’atmosfera e quegli elementi evocativi con i quali ricostruire la propria “storia”, così come avviene ascoltando musica “ambient” dove non vi sono temi o refrain precisi, ma il continuo fluire d’impressioni sonore che scandiscono l’andante di un racconto visivo. Le copertine della collana Urania realizzate dall’olandese Karel Thole ne sono un esempio lampante: Thole le dipingeva senza leggere il romanzo o basandosi su un riassunto, creando quelle che apparivano come istantanee di gusto fiammingo di suoi incubi o allucinazioni personali svincolate dalla loro funzione illustrativa. I numeri di Urania diventavano così il “combo multimedianico” di due libri, quello scritto dall’autore di fantascienza, e quello visualizzato da Thole da leggere con gli occhi dello spirito.
 
Tra le tante attività artistiche che hai praticato, ti senti più legato ad una in particolare?

Mentirei se dicessi che sia la pittura, che pure costituisce il midollo osseo del mio organismo creativo. Come in un apparato biologico che richiede il corretto funzionamento di tutti i suoi organi per continuare a vivere, la salubrità della mia ispirazione risiede nella sinfonica sincronia delle mie produzioni multimedianiche. Tutti i miei cortometraggi sono fisiologicamente legati alle loro incarnazioni musicali e alla serie di dipinti, poesie e racconti realizzati prima, durante e dopo, essendo tutti in vario modo risultanti poetiche simultanee di uno stato d’animo, una crisi esistenziale o una riflessione da me condotta in quello specifico momento della vita. “The Sinovial Gaze”, “Lo sguardo sinoviale”, il titolo che ho scelto per la mia prima monografia pittorica pubblicata nel 2008, voleva essere appunto una definizione sibillina ma esaustiva di questa mia “weltanschauung”: come il liquido sinoviale, il dono della visione scorre lungo tutto il nostro corpo, vicino a quella materia ossea che ci sopravvive dopo la morte, lubrificando le giunture in cui l’amore e la morte si articolano nel sentimento dell’eterno.