8 agosto
Quella mattina la sede del borgo le
sembrò più sporca e caotica del solito. Gran bella cosa che i
turisti finalmente si fossero interessati al castello, ma poi toccava
a lei pulire.
Si arrampicò sulla scaletta e con lo
straccio inumidito iniziò a spolverare gli stendardi appesi alle
pareti.
Quello non era un lavoro che si faceva
spesso, ma prima del Palio di S. Reparata era buona abitudine
riportare i trofei al loro splendore, portava fortuna. Ormai le
pareti erano completamente tappezzate e, se il borgo romano avesse
vinto anche quest’anno, i balestrieri avrebbero dovuto pensare alla
collocazione del nuovo drappo.
Il suo preferito era l’opera di una
pittrice di Prachatice, il paese gemellato con Terra del Sole,
raffigurante una bambina dai lunghi capelli sciolti sulle spalle. Era
intenta a rimirare un quadro con l’immagine della santa patrona
avvolta dalle fiamme, da cui si innalzava una colomba. Nello sfondo
il palazzo dei Commissari e la chiesa, immaginati vicini solo dalla
mente dell’artista ceca, visto che in realtà i due poteri si
fronteggiavano ai lati opposti della piazza d’Armi. La bambina
fuori dal quadro, ritratta di schiena, indossava una lunga tunica
bianca. Di fianco a lei, addossata a una parete illuminata debolmente
da una torcia, una spada dall’elsa panciuta in attesa di essere
brandita.
Toccò con i polpastrelli la superficie
morbida del drappo di velluto e con l’indice la colomba, che pareva
volesse uscire dal quadro. Era umida, come dipinta di fresco.
Si guardò il dito, come per trovarvi
traccia di colore.
«Che fai lassù per aria? Raccogli le
ragnatele?»
Chiara si girò, anche perché avvertì
sotto i piedi una specie di terremoto. Quel deficiente di Carlo sotto
di lei stava scuotendo con forza la scala, puntando con gli occhi da
vecchio satiro le sue gambe scoperte. Lei lasciò cadere lo straccio
sulla testa spelacchiata del guardone.
«Hai finito di sbavare? Copriti la
pelata, che è meglio.»
«Orco zio cinghiale, ma sei scema?»,
sbottò l’uomo togliendosi lo straccio sporco dalla testa. Con
l’altra mano si strisciava il pancione prominente.
Che caprone, pensò Chiara. Cercò di
svincolarsi da una conversazione che scivolava immancabilmente sullo
sfondo sessuale e si inventò un impegno nella sala delle armi, dove
aveva sentito la voce di Francesca, la sua ancora di salvezza.
9 agosto
Nella sala delle armi Francesca stava
spiegando a un gruppo di turisti le parti di cui si componeva la
corazza.
«E’ uno degli elementi costitutivi
dell’armatura e serviva per proteggere il busto del soldato durante
un combattimento.»
«E questo casco cos’è?», chiese un
bambino biondo lentigginoso che doveva avere su per giù otto anni.
«E’ un morione, un elmo aperto che
serviva per proteggere la testa dai colpi nemici. Quello che vedi è
la versione “a cresta”.
«Come la cresta di Balottelli, lo
posso provare?»
La cosa che le piaceva di più delle
visite guidate era soddisfare la curiosità dei bambini, doveva solo
stare attenta a bloccare le manine quando cercavano di sfilare le
spade, infilate in espositori da terra senza alcun tipo di
protezione.
«Certo. Poi ti faccio provare anche la
borgognotta, che assomiglia di più al casco della moto.»
Erano ormai le cinque e, dopo l’ultima
visita, non le rimaneva da fare altro che chiudere la sede all’arrivo
di Chiara con le chiavi. Non l’aveva vista quel pomeriggio, di
sicuro sarà stata impegnata con gli stendardi. Era una sua
fissazione pulire i drappi prima del Palio e, a dire il vero, quella
pratica aveva portato fortuna al borgo Romano negli ultimi anni, con
tre vittorie schiaccianti sui Fiorentini. Già Francesca assaporava i
cori inneggianti al Leone, simbolo del borgo Romano, all’inizio
della disfida e le bandiere giallo-blu appese a tutte le finestre
della piazza e della borgata.
Decise di cercare Chiara, probabilmente
aveva perso la cognizione del tempo oppure, cosa più probabile,
Carlo la stava di nuovo marcando stretto. Quel vecchio entrava nella
sede con mille scuse, da quando avevano cominciato i lavori di
ripulitura nei sotterranei e lui si era offerto di scarriolare le
macerie nel bastione di S. Martino. D’altronde, se non era per i
volontari, il borgo Romano non avrebbe nemmeno avuto la sede in
quell’ala del castello, che per motivi di sicurezza non era stata
occupata dall’Archivio storico, dalla scuola di musica o da
associazioni che a Terra del Sole si moltiplicavano come funghi.
Nella stanza degli stendardi Chiara non
c’era. Le chiavi della sede erano sul tavolo sopra un pacco di
depliant della cinquantesima edizione del Palio e lo straccio sporco.
Che fredda di andarsene, pensò.
Prima di chiudere la stanza, buttò
l’occhio sul muso regale del leone di bronzo. «Fai buona guardia,
mi raccomando» gli disse ridendo.
10 agosto
Ore 8,00
Francesca aprì la sede del borgo di
buonora, ancora il castello del Governatore sonnecchiava tra i
torrioni, intorpidito dalla brezza di un mattino di tarda estate.
Di solito i contradaioli del borgo
romano festeggiavano la notte di S. Lorenzo con spettacoli
pirotecnici ma, da quando lo scorso anno era andato a fuoco un
dragone di cartapesta, i fuochi notturni erano stati vietati per
ragioni di sicurezza. Stasera si sarebbero ritrovati nella sala
grande per una cena conviviale senza pretese. Un piccolo
festeggiamento per avere completato lo sgombro dell’ultima stanza
dei sotterranei. Chi non aveva visto, non poteva credere quanti
strati di humus si fossero depositati lì, scaricati dagli effluvi
delle fogne intasate che si facevano strada attraverso le feritoie
del castello durante le piogge. Le petizioni per la ripulitura delle
fogne medicee non avevano finora sortito nessun risultato,
amministratori e Hera giocavano al classico gioco del rimbalzino,
tergiversando su questioni di proprietà, manutenzione straordinaria,
mappature del sistema fognario.
E di Chiara nessuna notizia. Il
cellulare squillava a vuoto, nessuna risposta ai messaggi. Francesca
decise di continuare la pulizia degli stendardi, per sgombrare la
mente da brutti pensieri.
Infilò la chiave nella toppa, ma la
porta si aprì senza bisogno delle solite due mandate. Ieri sera
aveva chiuso, ripercorse con la mente le ultime azioni, che la
vedevano intenta ad ascoltare i due cloc. Avvertì un leggero brivido
sulla schiena, una sferzata di aria fredda. Percorse il corridoio che
portava dalla stanza delle armi a quella degli stendardi, fino
all’ufficio della sede. Le porte erano aperte e anche il finestrone
che si affaccia alla borgata. Chi era entrato, chi era uscito, chi
aveva lasciato tutto spalancato? Chi.
«E’ successa una cosa incredibile di
sotto, vieni …» urlò Chiara sbucando come un tornado. Saltellava
come un’indemoniata, facendo dondolare il leone rosso stampato sul
petto della maglietta aderente.
Francesca la guardò ammutolita, come
se avesse visto un fantasma. «Dove cazzo eri? Ma lo sai quante volte
ti ho telefonato? Non rispondi ai messaggi?».
Le era montata una rabbia incredibile,
ma era anche sollievo di vedere l’amica sana e salva.
Chiara sorrise e, dopo avere rovistato
fra le carte del tavolo, fece apparire il suo Nokia modello
cucciolone gran biscotto. Ecco, vedi? Niente cellulare, niente
risposte, parve dirle quella bocca arricciata. Lesse dodici chiamate
perse e cinque messaggi che non lesse.
Ore 10,00
Sembrava la scena di un film. Una mezza
parete dell’ultima stanza del sotterraneo era franata sul piancito
ripulito. Tra le fenditure di muro sbriciolato si apriva un buco
cavernoso, solcato da lampi di torcia impazzita. Gli occhi di
Francesca faticarono a distinguere qualcosa in quell’ammasso di
macerie. Si guardò intorno per riconoscere le sagome vicino a lei.
Giorgio indossava il casco da tombarolo e la maglietta nera con la
scritta “Il tuo futuro è sottoterra”, www. speleo club.it. Marco
brandiva l’ipod come la spada laser dello Jedi di Star Wars. Chiara
le prese la mano e la strinse con forza. Non si sentiva un rumore in
quella stanza, se non lo scalpiccio dei loro passi, incerti
nell’ispezionare il perimetro della stanza.
Poi la rivelazione. Giorgio direzionò
la luce del casco in una sezione dell’antro e illuminò un punto
ben preciso. Una pozza di materiale liquido scuro e vischioso.
Una matassa di peli aggrovigliati. Un cono affumicato mutilato alla
base.
«Si contano sulle dita di una mano,
quelli che fanno sul serio senza tanti santi in cielo, sono pochi per
davvero, sanno cosa c'è... »
«Marco, ma ti sembra il momento di
cantare?», si girò Francesca e il suo viso terreo fu illuminato dal
lampo della pistola laser. Chiara guardò l’amica e le venne in
mente la bambina dai capelli sciolti dello stendardo.
Giorgio raccolse il bussolotto
abbrustolito, se lo passò tra le dita e lo riconobbe: «Questo è il
dito di Carlo!»
Tutti fissarono senza rispondere il
moncherino da cui sporgeva un’unghia tagliata a metà.
Francesca venne assalita da un conato
di vomito.
Ore 12,00
«Occorre prendere una decisione e
subito!» sbottò Giorgio battendo il salsicciotto-barbecue del fu
Carlo sul tavolo. Non aveva mai avuto il senso del macabro, pensò
Chiara, guardando di sbieco l’unghia rotta.
«Ma la vuoi smettere?» sferzò
Francesca, che sembrava presa dalla tarantola e giochicchiava
coll’elsa di una spada sfilata dall’espositore a muro.
«State calmi, non è il momento di
perdere il senno» se ne uscì Marco e anche nell’aspetto pareva
invecchiato di dieci anni almeno, persino sulle sopracciglia si era
depositato uno strato secolare di polveri e calcinacci frantumati. Da
una tasca laterale dei bermuda color militare, modellati sulle gambe
muscolose e glabre, usciva il manico di una mazzuola.
Il silenzio calò nella stanza. Erano
dentro la sede da almeno un’ora e ognuno cercò di isolare l’ansia
trattenendo lo sguardo su un punto qualsiasi. Francesca ora
accarezzava convulsamente l’elsa, come se quel gesto le procurasse
un qualche sollievo.
Chiara si sentì soffocare e decise di
rifugiarsi nella stanza degli stendardi, forse lì avrebbe trovato un
po’ di lucidità. Lo sapevano tutti che avrebbero dovuto chiamare
la vicina stazione dei Carabinieri per denunciare il ritrovamento, ma
nessuno aveva il coraggio di farlo, come se quella scoperta fosse
solo la punta dell’iceberg. Avrebbero aperto delle indagini,
probabilmente tutta l’area del castello sarebbe stata chiusa con i
sigilli per chissà quanto tempo. Voleva dire che forse il Palio
sarebbe stato rimandato o addirittura annullato. Proprio al
cinquantesimo anno, terribile. E lei? Tutti sapevano che Carlo da
tempo si intrufolava nella sede con una scusa qualsiasi per vederla e
farle le sue indecenti profferte. Il maresciallo le avrebbe fatto
domande imbarazzanti, qualcuno avrebbe potuto immaginare il movente
per un delitto. E comunque cosa potevano fare loro, se non denunciare
quello che avevano trovato? Alzò gli occhi sullo stendardo dipinto
da Ragazzini, Palio 1985. Lo sguardo tranquillo della santa patrona,
rivolto a una colomba in volo nel cielo terso, la riportò alla
realtà.
Si girò verso il suo stendardo
preferito. Ma il rettangolo di parete sopra la porta era vuoto.
Qualcuno l’aveva staccato dalla parete. Chi?
Ore 15,00
Nei sotterranei del castello tutto era
come lo avevano lasciato. Si erano armati di torce potenti e avevano
deciso di perlustrare con cura l’area del crollo, per trovare altri
pezzi di Carlo, se c’erano. Tutti erano concordi sul fatto che, chi
aveva macellato e poi abbrustolito il dito, aveva tagliuzzato anche
il resto. Quello che non si spiegavano erano i tempi: come aveva
fatto l’ipotetico assassino a uccidere, tagliuzzare, abbrustolire e
murare i pezzi di Carlo nell’arco di una notte? E soprattutto:
perché tutta quella fatica? Comunque la decisione l’avevano presa
di comune accordo: niente denuncia ai Carabinieri finché non
avessero trovato i segni tangibili di un omicidio.
Giorgio era già all'opera, munito
di pala, per scavare le macerie dall'antro franato. Marco stava
aprendo un varco con la mazzuola, per facilitare i lavori di scavo.
Chiara e Francesca non avevano precise istruzioni, ossessionate dalla
sparizione dello stendardo.
«Ma perché ieri sera sei sparita
all’improvviso e hai lasciato le chiavi sul tavolo della sede? Non
potevi aspettarmi?» la domanda frullava in testa a Francesca dalla
mattina e quello era il momento dei chiarimenti.
«Dalla finestra avevo visto arrivare
l’auto di Carlo, ho pensato di evitarlo e sono uscita in fretta. Tu
eri impegnata con un gruppo di turisti, non ti volevo disturbare. Non
potevo di certo sapere che … ma secondo te devo cercarmi un alibi
per ieri sera?» Chiara cominciò a stropicciare i piedi sul
selciato, come se cercasse delle risposte a domande inespresse.
Appoggiò il tallone su qualcosa di soffice. Illuminò il punto con
la torcia. Un nido di piume. Si chinò a raccogliere quel batuffolo
lanoso e lo porse a Francesca.
«Cos’è?»
«Cosa ne so, ma comunque è davvero
strano.»
«C’è qualcosa che non lo è in
tutto quello che ci sta capitando?»
No, in effetti non c’era. Chiara
decise di avvicinarsi a Giorgio e Marco, che stavano inginocchiati
davanti al buco senza parlare. Sembravano i pastori del presepe
davanti a Gesù Bambino. Avevano ripulito un’area di due metri per
due e scavato alla profondità di mezzo metro alla velocità della
luce. Nessuna traccia di cadaveri, arti mozzati o visceri purulenti.
Nessuna traccia di stendardi insanguinati. Niente di niente.
«Ragazzi, qui non c’è nulla. Io
direi che per oggi basta, no?» Marco rivolse un cenno ai compagni e
tutti si alzarono. «Questo dito per il momento lo tengo io» e se lo
mise nella tasca dei bermuda insieme alla mazzuola. «Voi acqua in
bocca, mi raccomando. Fra un’ora arriva il gruppo che deve
preparare la cena nel bastione, diamoci una ripulita e facciamo come
se niente fosse. Non parlate nemmeno della frana, qui tanto ci
lavoriamo solo io e Gio. Ma voi non avete trovato niente?»
Le ragazze si guardarono e risposero di
no. In mano Chiara teneva il nido di penne.
11 agosto
Ore 2,00
Si leccava la zampa compiaciuto, il
silenzio della notte gli dava un senso di pace e tranquillità.
La guardò passare un velo di cenere
sul drappo insanguinato, un lavoro di pazienza, ma che aveva dato
ottimi risultati. A volte le era toccato ripassare con il pennello il
piumaggio della colomba, che si sporcava facilmente, soprattutto
quando scendevano nei sotterranei, oppure il fendente della spada dai
grumi di sangue..
«La prossima volta che usi la mia
spada» disse la bambina «ripuliscila. La ragazza, che ieri sembrava
posseduta dal demonio, ci giocava e non si è accorta che era
imbrattata di sangue.»
«Non abbiamo avuto tanto tempo» disse
piccato il leone. Quell’uomo aveva brutte intenzioni con la donna
dalle gambe scoperte, non potevo permettere che le facesse del male.
Sono il guardiano del castello, io!»
«Tu sarai il guardiano» ribatté la
bambina dai capelli sciolti «ma il lavoro sporco dobbiamo sempre
farlo noi. Quando lo hai sbranato, chi lo ha tagliato, chi lo ha
portato nel sotterraneo e bruciato? E poi l’idea di murarlo nella
parete, non bastassero le volte che abbiamo seppellito i bifolchi nel
bastione. E se scavano anche lì, come nei sotterranei?»
Fino a quel momento la donna con il
cappello non aveva aperto bocca. Non le piacevano quei battibecchi
inutili. Lei aveva assistito al macello senza dare una mano, era una
signora lei, ma questa volta avevano fatto un lavoro da dilettanti. E
solo per compiacere il leone, che amava sbranare le vittime nei
sotterranei e tenere un trofeo per sé.
«Non per interrompere i vostri
discorsi» intervenne seccata «ma vorrei farvi presente che quei
ragazzi oggi hanno trovato solo un dito bruciato. Dunque, nessun
problema, non denunceranno niente e nessuno. L’unico sbaglio,
secondo me, è stato usare il drappo per trasportare il cadavere nel
sotterraneo. Domattina lo dovrete riappendere al suo posto. Volete
perdere il Palio quest’anno? Quindi sbrigatevi. Quando al tuo dito,
Leone, il ragazzo se lo è tenuto, quindi questa volta non potrai
aggiungerlo alla tua collana. Fattene una ragione.»
Il re del castello per tutta risposta
continuò a leccarsi la zampa, da cui era stato strappato un ciuffo
di peli. Si girò a guardare benevolmente la colomba, che dormiva
indisturbata il sonno dei giusti. Sapeva di essere protetta dal
leone, dal fuoco e dalla spada della patrona di Terra del Sole.
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