Bianca
come la neve
rossa
come il sangue...
Così
era apparsa appena nata e tale rimase fino ai 15 anni.
Da
quando aveva scoperto la sua presenza aveva fatto di tutto per
procurarsi un aborto: buttarsi da un muretto (slogandosi solo una
caviglia), mangiare grandi quantità di prezzemolo, liquirizia,
cannella e tracannare litri di caffè (come le avevano consigliato
delle amiche), di tutto tranne che andare ad abortire in ospedale,
visto che era ancora minorenne e necessitava di essere accompagnata
da un genitore.
Alla
fine riuscì a procurarsi la tachicardia, mentre la gravidanza avanzò
finché quella baldracca di sua madre se ne accorse e la cacciò via
di casa.
Non
sapeva con sicurezza chi fosse il padre di suo figlio, aveva
frequentato tre uomini diversi (quattro se si contano gli abusi
subiti dal patrigno da quando aveva 12 anni), eppure lei era propensa
a pensare che fosse il pallido sconosciuto che aveva incontrato una
fredda serata di novembre.
Era
stato con lei solo tre volte per poi scomparire nel nulla così come
era apparso, lasciandole il ricordo di quegli occhi neri che
sembravano scrutarle l'animo.
E
la gravidanza andò avanti, nonostante cercasse di annientarsi con
droghe e alcool e la bambina nacque apparentemente normale.
Solo
che per Gina la figlia non era una bambina come tante, l'aveva temuta
nel momento in cui aveva aperto i suoi occhi grandi e neri,
fissandola con un'espressione inquisitoria.
Furono
le infermiere a darle un nome, perché a Gina non ne era venuto in
mente nemmeno uno, la chiamarono Bianca Rosa, in onore del suo
incarnato.
Non
era riuscita mai ad amarla e per anni la considerò un peso, un
ostacolo che le rendeva impossibile incontrare l'uomo dei suoi sogni
ed avere una vita normale; era convinta di non riuscire a smettere di
ubriacarsi in locali malfamati a causa dell'infelicità che la sua
esistenza le procurava.
Eppure
non aveva mai pensato ad abbandonarla in un orfanotrofio, la
considerava una sua proprietà dalla quale, volente o nolente, non
avrebbe mai potuto liberarsi.
Ma
fu quando compì tredici anni e la luna rossa mensile cominciò a
visitarla che cominciò a odiarla.
Improvvisamente
si accorse degli sguardi dei suoi amanti occasionali posati sulle
acerbe curve della ragazza che cominciavano a emergere e iniziò a
vederla come una giovane donna, quindi una temibile rivale.
Le
vietò di uscire dalla propria stanza quando degli uomini venivano a
trovarla, la maltrattava ogni qual volta si accorgeva che veniva
adocchiata per strada con desiderio.
Preferiva
uscisse di casa il meno possibile e cercava di imbruttirla e
abbattere ogni suo sicurezza procurandole solo vecchi gonnelloni
consumati e scarpe bucate.
-Sei
brutta! Sei pallida come uno spettro! Fai impressione!- Le diceva.
La
totale mancanza di ostilità della giovane e l'incassare le
umiliazioni in silenzio le facevano provare disprezzo per quella
pusillanime.
Solo
quegli occhi che, ogni tanto si posavano sulla madre, sembravano
raccontare un'altra storia, sembravano dirle: -Umiliami e maltrattami
pure. Tanto so di esserti superiore e un giorno te ne accorgerai.-
Non
sopportava quello sguardo scuro, quegli abissi senza fondo in cui
poteva nascondersi qualsiasi mostruosità.
Poi
un giorno conobbe lui: un sogno adolescenziale incontrato con
quindici anni di ritardo.
Si
stava sbronzando al solito bar quando lo vide entrare: un ventenne
dal sorriso mascalzone, dagli occhi pieni di giovanile sfida e il
fisico di un dio greco.
Tutto
ciò che avrebbe smosso i suoi ormoni sia a sedici anni che a
trentuno.
Aveva
notato piena di ammirazione i suoi bicipiti tatuati e il suo
pavoneggiarsi pieno di sé e fece di tutto perché lui la notasse.
E
ovviamente la notò, chi del resto non l'avrebbe fatto: in fondo era
una donna desiderabile e scollacciata quanto basta.
Le
si avvicinò col passo felpato di un leopardo, offrendole una birra.
Presto
lei seppe ciò che le serviva: si chiamava Leonardo, aveva
ventun'anni, si era appena trasferito in città in cerca di nuove
emozioni, condivideva l'appartamento col fratello ed entrambi
lavoravano per un'impresa come idraulici.
Lei
lo voleva, ma non solo per una notte, quella l'avrebbe facilmente
ottenuta, ma per più tempo possibile, magari per quel “sempre”
dei sogni di ragazza.
Gli
disse che aveva lo scarico del lavandino che perdeva (cosa
effettivamente vera, ma di cui non si era curata fino a quel momento)
e concordarono che sarebbe passato a ripararlo il pomeriggio
seguente.
Fu
così che pagò il lavoro in natura ed egli tornò da lei ogni
giorno, annientandola con la sua passione entusiasta.
Ogni
volta Gina si premuniva di vietare alla figlia di lasciare la propria
stanza, per poi dimenticarsi della sua esistenza tra le braccia del
giovane.
Quando
Leonardo si addormentava sul suo letto esausto, ella ne ammirava il
viso angelico sopra quel corpo scultoreo, divorata da un misto di
tenerezza e desiderio.
Avrebbe
voluto averlo sempre con sé, ma come avrebbe fatto a nascondergli la
presenza di una figlia?
Una
sera a Leonardo parve di sentire un rumore provenire da una stanza e
le chiese se ci fosse qualcun altro, Gina negò e il giorno dopo
strapazzò per bene Bianca per non essere stata abbastanza
silenziosa.
Continuò
così a rimandare il problema fino a quando un giorno finì per
cozzarci violentemente contro.
Una
sera quando, dopo l'amplesso, Leonardo era dovuto andare in bagno,
Gina sentì la sua voce mentre si rivolgeva a qualcuno; corse fuori
dalla stanza sperando che stesse parlando al cellulare ma sapendo in
realtà cos'era accaduto: i due si erano incontrati in corridoio.
Lui
le stava ponendo delle domande e lei non rispondeva, limitandosi a
spalancare i suoi occhi di pece mentre le sue guance arrossivano
ancor più del solito.
-Cosa
fai qui?! Torna subito in camera tua!!- Le ordinò la madre.
La
ragazza cercò di balbettare che aveva solo avuto necessità di
andare in bagno, ma la donna la strattonò verso la sua camera e ve
la rinchiuse.
-Chi
è quella ragazza?- Chiese Leonardo sbalordito.
-Quella
stronzetta di mia figlia-, si lasciò scappare Gina per poi
pentirsene subito dopo: perché non gli aveva detto che era sua
sorella?
-Ma
a che età l'hai avuta?-
-Ero
molto giovane-, cercò di giustificarsi, ma ormai sapeva che lui
avrebbe capito che doveva esserci molta differenza di età fra loro
due.
Sperava
che la faccenda si fosse conclusa con quello sfortunato episodio, ma
quella streghetta, in pochi minuti, sembrava aver avvelenato il
sangue di Leonardo.
Qualcosa
quella sera si era inevitabilmente incrinato.
A
letto egli aveva perso il suo slancio passionale, anzi spesso evitava
i tentativi di approccio da parte di Gina.
Lei
si chiedeva se fosse dovuto al fatto che ella gli aveva nascosto la
sua vera età e il fatto di avere una figlia, ma per esperienza
sapeva che quando un uomo desiderava veramente una donna, non c'era
menzogna od omissione che potesse spegnere la sua passione.
Cominciò
a scrutare con attenzione la figlia che si limitava ad arrossire e,
stranamente, a evitarne lo sguardo; Gina era sicura che osservandola
avrebbe trovato la risposta all'atteggiamento freddo di Leonardo.
Un
giorno decise di mandare Bianca a comprare qualcosa al supermercato
per ispezionarne la stanza.
La
sua camera da letto era molto spartana, pochi vestiti sdruciti,
qualche foglio su cui scarabocchiava dei disegni che Gina trovava
raccapriccianti, alcune candele spente di fronte a uno specchio e un
paio di libri presi in prestito dalla biblioteca.
Perciò
non tardò molto a trovare un vecchio e sbilenco cofanetto dove erano
riposti dei fogli scritti a mano.
L'unico
modo infatti con cui qualcuno avrebbe potuto comunicare con la
ragazza era tramite lettere manoscritte, dato che non possedeva né
computer né cellulari; con una grafia incerta e sgrammaticata, fatta
di frasi semplici ma accorate, qualcuno dichiarava il proprio amore
incondizionato a Bianca, firmandosi appunto Leonardo.
Le
chiedeva di rispondere alle sue lettere nascondendole sotto un
mattone a fianco all'entrata di casa, implorandola di fuggire con lui
per coronare il suo sogno romantico.
Le
confessava inoltre di non amare Gina, anzi di detestarle e
disprezzarla per il modo crudele in cui la trattava.
Il
livore della rabbia cominciò a scorrerle nelle vene come lava
incandescente; si precipitò a controllare sotto il mattone citato
nella lettera ma non vi trovò nulla: forse Leonardo aveva già
ricevuto la sua risposta prima che ella potesse controllare.
Fu
allora che capì che ci sarebbe stato solo un modo per essere
finalmente felice e a fianco di un uomo che amava.
Attese
il ritorno della ragazza per aggredirla alle spalle, Bianca si
divincolava cercando di liberarsi dalla stretta attorno ai suoi
capelli mentre la madre la ricopriva di insulti accusandola di essere
una puttanella e di volere tutti gli uomini per sé.
La
ragazza protestava sostenendo di non aver fatto nulla di male, quando
Gina le mostrò le lettere incriminate: ella pianse affermando di non
aver mai risposte a quei messaggi, ma ella non le credette e afferrò
un coltello in cucina.
Bianca,
alla vista dell'arma, impallidì e riuscì a sfuggirle lasciandole
una ciocca nera tra le mani, Gina la lasciò cadere per terra
rabbrividendo come se fosse stata una serpe.
Invece
che tentare di uscire fuori di casa si rinchiuse nella propria camera
da letto.
La
madre, ormai in preda a una furia sfrenata e invasa da una forza
impensabile per una donna minuta come lei, cominciò a scagliarsi
contro la fragile porta, incurante delle schegge che le si
conficcavano sugli avambracci e del dolore pulsante agli arti.
Quando
finalmente riuscì a scardinare la porta si precipitò nella stanza
osservandola incredula.
La
figlia aveva acceso le candele di fronte allo specchio e guardava
come ipnotizzata il proprio riflesso; in quel momento una fuggevole
domanda passò nella mente della donna: dove diavolo aveva preso
quello specchio dalla cornice antica e impolverata? Perché non ci
aveva mai pensato prima d'ora?
Ma
la furia della gelosia prevalse; la strattonò di nuovo per i capelli
sbattendole il viso sul vetro dello specchio che però non
s'infranse.
-Ti
stavi ammirando, sgualdrinella? Guardati bene perché non incanterai
più nessuno con quel tuo visino da streghetta...da quando sei nata
mi hai avvelenato la vita, avrei dovuto buttarti da un ponte quando
eri neonata, ma posso rimediare adesso...-
La
figlia alzò lo sguardo e la fissò attraverso il riflesso dello
specchio con i suoi pozzi neri; non sembrava volerla più supplicare,
il suo tono di voce fu freddo e pacata: -Non ti rendi conto di quello
che stai per fare...non sai quello che accadrà dopo...-
-Oh
sì che lo so...schifosa puttanella- e la accoltellò alla schiena
una, due, tre volte, il coltello penetrava in una carne che sembrava
inconsistente.
La
ragazza piombò a terra come un manichino, senza proferire alcun
lamento, bianca come la neve, rossa come il sangue.
In
fondo era stato più facile del previsto, Gina si passò il dorso
della mano sulla fronte sudata con un sospiro di sollievo.
La
notte caricò il cadavere in macchina e lo buttò dal fiume, nessuno
l'avrebbe cercata, non aveva amici, né parenti, non andava a scuola
da due anni.
Quell'essere
sarebbe sparito nel nulla da cui era apparso.
Certo
Leonardo l'avrebbe cercata, ma Gina gli avrebbe mentito dicendole di
averla mandata da una zia per tenerla lontano da lui, si sarebbe
rassegnato e sarebbe tornato da lei.
Il
problema era che Leonardo non si lasciò convincere a desistere così
facilmente.
-Dimmi
cosa le hai fatto?! Dove l'hai mandata disgraziata!-
-Lontana
da te. Non puoi pretendere di fare la corte a mia figlia quando hai
una relazione con me.-
-Non
ho nessuna relazione con te...mi fai schifo, mi hai mentito, sei una
madre degenerata, ti disprezzo. Non aveva fatto nulla di male, non
ha mai risposto alle mie lettere. Come fai a trattare in questo modo
tua figlia!-
E
non sapeva tutta la storia...Gina cominciò a sospettare che sarebbe
stato difficile riconquistarlo.
In
ogni caso poco male, la cosa più importante era essersi sbarazzata
di quella diabolica mocciosa.
Così
parve inizialmente non avere alcun rimorso per il delitto che aveva
commesso, anzi una strana sensazione di euforia e sollievo la
pervadeva: era di nuovo una donna libera di decidere della propria
vita.
Così
visse spensieratamente per un anno, evitando però di entrare nella
stanza che era appartenuta a Bianca.
Fu
quando però si avvicinò il primo anniversario della sua morte che
atroci incubi cominciarono a perseguitarla: ciocche di capelli neri
che sbucavano dal buio, una pallida e fredda mano che le si avvolgeva
sul collo mentre delle orbite nere le risucchiavano l'anima.
Si
svegliava urlando, terrorizzando il suo amante di turno che decise di
non dormire più con lei.
Pensava
di essersi liberata definitivamente di quella creatura quando ella
tornava a perseguitarla nel sonno, quando più era indifesa.
Che
cos'era stata quella ragazza? Era stata una giovane come tante? Da
dove era saltata fuori? Da dove era sbucato quello che pensava
esserne il padre?
Fu
allora che Gina cominciò a porsi seriamente questi interrogativi.
E
l'ultima frase che le aveva rivolto? Intendeva parlare di una
giustizia umana, divina, o qualcos'altro che l'attendeva?
Si
accorse di non aver mai saputo nulla di sua figlia, tranne che tutti
gli uomini la trovassero irresistibilmente attraente non appena
incrociavano il suo sguardo.
Era
credente? In quale dio credeva? Come trascorreva le giornate
rinchiusa nella sua stanzetta? A cosa servivano quelle candele? Dove
aveva trovato lo specchio?
Per
questo motivo rimise piede nella sua camera a un anno di distanza
dalla sua uccisione.
Accadde
dopo l'ennesimo incubo, ancor più terribile e verosimile dei
precedenti, dopo il quale si svegliò zuppa di sudore e con il cuore
che sembrava volerle squarciare il petto.
Dopo
essere stata in cucina per bere una birra gelata, prese coraggio ed
entrò in quella stanza.
Si
avvicinò ai fogli sparsi nella stanza in cui la ragazza aveva
tracciato dei bizzarri disegni che, fino ad allora, Gina non aveva
mai osservato con attenzione.
In
essi vi erano tracciati, con un talento di cui solo in quel momento
si era accorta, dei simboli, uno scarabeo e un'insolita colonna con
quattro linee verticali che l'attraversavano, ricordando una colonna
vertebrale, ma il disegno più inquietante per Gina fu quello di
un'ombra di una sagoma maschile che le era molto famigliare, una
figura che ella non pensava che Bianca Rosa avesse mai visto.
Tutti
i disegni erano cosparsi da segni sconosciuti che ella non era in
grado di decifrare.
Pensieri
caotici l'assalirono: da dove era venuto quell'uomo la cui sagoma
inconfondibile era stato riprodotta da quella che probabilmente era
sua figlia? Chi era veramente e perché non aveva mai cercato di
scoprirlo?
Nascosti
in fondo a un cassetto trovò due oggetti che rappresentavano i
simboli che la ragazza aveva disegnato, lo scarabeo e la colonna,
riccamente intarsiati e probabilmente d'oro e pietre preziose: dove
accidenti li aveva mai trovati dato che sembravano essere molto
preziosi?
Fu
in quel momento che sentì un vocione tuonare alle sue spalle: -Li
abbiamo cesellati per lei, la figlia del nostro signore.-
Con
uno strillo si lasciò scappare di mano la piccola colonna e si voltò
per vedere chi avesse parlato: una strana creatura dalla corporatura
tozza e che non superava il metro e trenta di altezza la stava
osservando dall'ingresso della stanza, con un ghigno sul volto
pallido e baffuto, con occhi verdastri che rilucevano nel buio.
-Chi
sei?!- Riuscì solo chiedergli con una voce che pareva un rantolo.
-Siamo
i dvergar, nati dalla carne putrefatta di un dio defunto.-
Fu
in quel momento che dal buio sbucarono altre sei creature simili a
lui.
-Andate
via o chiamo la polizia-, provò a minacciare lei, rattrappendosi
contro la parete.
La
loro risata collettiva risuonò terribile nella casa, ella si portò
le mani alle orecchie nel vano tentativo di attutirne il rumore che
però continuava a rimbombarle nel cervello.
-Noi
siamo venuti qui per accompagnare la nostra signora, perché ella
desidera mostrarti il nostro regno. Guarda lo specchio-
Gina
lo fece...quello specchio misterioso sbucato chissà da dove.
Ne
osservò con maggior attenzione gli intarsi dorati, le pesanti
decorazioni che rappresentavano nodi e intrecci che sembravano
cambiare forma in maniera impercettibile.
Fu
allora che Gina vide una sorta di nebbia impadronirsi della
superficie riflettente è udì dei passi leggeri a lei noti provenire
da dietro lo specchio.
Chiuse
gli occhi e scosse la testa: non voleva sapere chi stesse per uscire
fuori da quella foschia.
Una
mano gelida le sfiorò la fronte, mentre l'odore di fiori marciti
nell'umidità di una tomba si spandeva per la stanza.
-Mamma,
guardami-le sussurrò.
Non
voleva farlo per nulla al mondo, eppure i suoi occhi sembravano avere
vita propria e non le obbedivano; si aprirono mostrandole un essere
che era Bianca Rosa, ma anche qualcos'altro.
Il
pallore aveva preso il sopravvento sul suo volto, facendo scomparire
il rossore delle guance, gli occhi erano delle orbite nere e
abissali, ma la bocca era di porpora.
Le
onde dei suoi capelli fluttuavano nell'aria e si protendevano verso
Gina come famelici serpenti neri; indossava ancora gli abiti del
giorno in cui l'aveva uccisa, solo che ora erano sporchi e consunti e
i suoi piedi erano scalzi.
-Non
può essere vero....tu sei il demonio, l'ho sempre saputo.-
Singhiozzò la madre cercando di sottrarsi alle carezze ripugnanti
della figlia.
-Vieni
con noi, ti faremo rivedere papà...grazie a te ora viviamo insieme;
ti prometto che sarai tu la più bella del regno-, sussurrò la
creatura mentre le orbite nere luccicano.
Tutto
ciò che desiderava in quel momento era sfuggirle, allontanarsi da
quel mostro che aveva generato e vide la sua unica via d'uscita: la
finestra aperta accanto a lei.
Vi
si precipitò e si gettò dal settimo piano, preferendo la morte a
quella visione: ma non morì subito.
L'ultima
immagine che vide fu sua figlia, scesa in strada e accucciata vicino
a lei: la ragazza, assorta, le sfiorò il viso e si toccò la guancia
con la mano sporca del suo fluido vitale.... Bianca come la neve,
rossa come il sangue...
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