lunedì 15 giugno 2015

BIANCA ROSA. SABRINA ANTONELLA ABENI



 

Bianca come la neve
rossa come il sangue...

Così era apparsa appena nata e tale rimase fino ai 15 anni.
Da quando aveva scoperto la sua presenza aveva fatto di tutto per procurarsi un aborto: buttarsi da un muretto (slogandosi solo una caviglia), mangiare grandi quantità di prezzemolo, liquirizia, cannella e tracannare litri di caffè (come le avevano consigliato delle amiche), di tutto tranne che andare ad abortire in ospedale, visto che era ancora minorenne e necessitava di essere accompagnata da un genitore.
Alla fine riuscì a procurarsi la tachicardia, mentre la gravidanza avanzò finché quella baldracca di sua madre se ne accorse e la cacciò via di casa.
Non sapeva con sicurezza chi fosse il padre di suo figlio, aveva frequentato tre uomini diversi (quattro se si contano gli abusi subiti dal patrigno da quando aveva 12 anni), eppure lei era propensa a pensare che fosse il pallido sconosciuto che aveva incontrato una fredda serata di novembre.
Era stato con lei solo tre volte per poi scomparire nel nulla così come era apparso, lasciandole il ricordo di quegli occhi neri che sembravano scrutarle l'animo.
E la gravidanza andò avanti, nonostante cercasse di annientarsi con droghe e alcool e la bambina nacque apparentemente normale.
Solo che per Gina la figlia non era una bambina come tante, l'aveva temuta nel momento in cui aveva aperto i suoi occhi grandi e neri, fissandola con un'espressione inquisitoria.
Furono le infermiere a darle un nome, perché a Gina non ne era venuto in mente nemmeno uno, la chiamarono Bianca Rosa, in onore del suo incarnato.
Non era riuscita mai ad amarla e per anni la considerò un peso, un ostacolo che le rendeva impossibile incontrare l'uomo dei suoi sogni ed avere una vita normale; era convinta di non riuscire a smettere di ubriacarsi in locali malfamati a causa dell'infelicità che la sua esistenza le procurava.
Eppure non aveva mai pensato ad abbandonarla in un orfanotrofio, la considerava una sua proprietà dalla quale, volente o nolente, non avrebbe mai potuto liberarsi.
Ma fu quando compì tredici anni e la luna rossa mensile cominciò a visitarla che cominciò a odiarla.
Improvvisamente si accorse degli sguardi dei suoi amanti occasionali posati sulle acerbe curve della ragazza che cominciavano a emergere e iniziò a vederla come una giovane donna, quindi una temibile rivale.
Le vietò di uscire dalla propria stanza quando degli uomini venivano a trovarla, la maltrattava ogni qual volta si accorgeva che veniva adocchiata per strada con desiderio.
Preferiva uscisse di casa il meno possibile e cercava di imbruttirla e abbattere ogni suo sicurezza procurandole solo vecchi gonnelloni consumati e scarpe bucate.
-Sei brutta! Sei pallida come uno spettro! Fai impressione!- Le diceva.
La totale mancanza di ostilità della giovane e l'incassare le umiliazioni in silenzio le facevano provare disprezzo per quella pusillanime.
Solo quegli occhi che, ogni tanto si posavano sulla madre, sembravano raccontare un'altra storia, sembravano dirle: -Umiliami e maltrattami pure. Tanto so di esserti superiore e un giorno te ne accorgerai.-
Non sopportava quello sguardo scuro, quegli abissi senza fondo in cui poteva nascondersi qualsiasi mostruosità.
Poi un giorno conobbe lui: un sogno adolescenziale incontrato con quindici anni di ritardo.
Si stava sbronzando al solito bar quando lo vide entrare: un ventenne dal sorriso mascalzone, dagli occhi pieni di giovanile sfida e il fisico di un dio greco.
Tutto ciò che avrebbe smosso i suoi ormoni sia a sedici anni che a trentuno.
Aveva notato piena di ammirazione i suoi bicipiti tatuati e il suo pavoneggiarsi pieno di sé e fece di tutto perché lui la notasse.
E ovviamente la notò, chi del resto non l'avrebbe fatto: in fondo era una donna desiderabile e scollacciata quanto basta.
Le si avvicinò col passo felpato di un leopardo, offrendole una birra.
Presto lei seppe ciò che le serviva: si chiamava Leonardo, aveva ventun'anni, si era appena trasferito in città in cerca di nuove emozioni, condivideva l'appartamento col fratello ed entrambi lavoravano per un'impresa come idraulici.
Lei lo voleva, ma non solo per una notte, quella l'avrebbe facilmente ottenuta, ma per più tempo possibile, magari per quel “sempre” dei sogni di ragazza.
Gli disse che aveva lo scarico del lavandino che perdeva (cosa effettivamente vera, ma di cui non si era curata fino a quel momento) e concordarono che sarebbe passato a ripararlo il pomeriggio seguente.
Fu così che pagò il lavoro in natura ed egli tornò da lei ogni giorno, annientandola con la sua passione entusiasta.
Ogni volta Gina si premuniva di vietare alla figlia di lasciare la propria stanza, per poi dimenticarsi della sua esistenza tra le braccia del giovane.
Quando Leonardo si addormentava sul suo letto esausto, ella ne ammirava il viso angelico sopra quel corpo scultoreo, divorata da un misto di tenerezza e desiderio.
Avrebbe voluto averlo sempre con sé, ma come avrebbe fatto a nascondergli la presenza di una figlia?
Una sera a Leonardo parve di sentire un rumore provenire da una stanza e le chiese se ci fosse qualcun altro, Gina negò e il giorno dopo strapazzò per bene Bianca per non essere stata abbastanza silenziosa.
Continuò così a rimandare il problema fino a quando un giorno finì per cozzarci violentemente contro.
Una sera quando, dopo l'amplesso, Leonardo era dovuto andare in bagno, Gina sentì la sua voce mentre si rivolgeva a qualcuno; corse fuori dalla stanza sperando che stesse parlando al cellulare ma sapendo in realtà cos'era accaduto: i due si erano incontrati in corridoio.
Lui le stava ponendo delle domande e lei non rispondeva, limitandosi a spalancare i suoi occhi di pece mentre le sue guance arrossivano ancor più del solito.
-Cosa fai qui?! Torna subito in camera tua!!- Le ordinò la madre.
La ragazza cercò di balbettare che aveva solo avuto necessità di andare in bagno, ma la donna la strattonò verso la sua camera e ve la rinchiuse.
-Chi è quella ragazza?- Chiese Leonardo sbalordito.
-Quella stronzetta di mia figlia-, si lasciò scappare Gina per poi pentirsene subito dopo: perché non gli aveva detto che era sua sorella?
-Ma a che età l'hai avuta?-
-Ero molto giovane-, cercò di giustificarsi, ma ormai sapeva che lui avrebbe capito che doveva esserci molta differenza di età fra loro due.
Sperava che la faccenda si fosse conclusa con quello sfortunato episodio, ma quella streghetta, in pochi minuti, sembrava aver avvelenato il sangue di Leonardo.
Qualcosa quella sera si era inevitabilmente incrinato.
A letto egli aveva perso il suo slancio passionale, anzi spesso evitava i tentativi di approccio da parte di Gina.
Lei si chiedeva se fosse dovuto al fatto che ella gli aveva nascosto la sua vera età e il fatto di avere una figlia, ma per esperienza sapeva che quando un uomo desiderava veramente una donna, non c'era menzogna od omissione che potesse spegnere la sua passione.
Cominciò a scrutare con attenzione la figlia che si limitava ad arrossire e, stranamente, a evitarne lo sguardo; Gina era sicura che osservandola avrebbe trovato la risposta all'atteggiamento freddo di Leonardo.
Un giorno decise di mandare Bianca a comprare qualcosa al supermercato per ispezionarne la stanza.
La sua camera da letto era molto spartana, pochi vestiti sdruciti, qualche foglio su cui scarabocchiava dei disegni che Gina trovava raccapriccianti, alcune candele spente di fronte a uno specchio e un paio di libri presi in prestito dalla biblioteca.
Perciò non tardò molto a trovare un vecchio e sbilenco cofanetto dove erano riposti dei fogli scritti a mano.
L'unico modo infatti con cui qualcuno avrebbe potuto comunicare con la ragazza era tramite lettere manoscritte, dato che non possedeva né computer né cellulari; con una grafia incerta e sgrammaticata, fatta di frasi semplici ma accorate, qualcuno dichiarava il proprio amore incondizionato a Bianca, firmandosi appunto Leonardo.
Le chiedeva di rispondere alle sue lettere nascondendole sotto un mattone a fianco all'entrata di casa, implorandola di fuggire con lui per coronare il suo sogno romantico.
Le confessava inoltre di non amare Gina, anzi di detestarle e disprezzarla per il modo crudele in cui la trattava.
Il livore della rabbia cominciò a scorrerle nelle vene come lava incandescente; si precipitò a controllare sotto il mattone citato nella lettera ma non vi trovò nulla: forse Leonardo aveva già ricevuto la sua risposta prima che ella potesse controllare.
Fu allora che capì che ci sarebbe stato solo un modo per essere finalmente felice e a fianco di un uomo che amava.
Attese il ritorno della ragazza per aggredirla alle spalle, Bianca si divincolava cercando di liberarsi dalla stretta attorno ai suoi capelli mentre la madre la ricopriva di insulti accusandola di essere una puttanella e di volere tutti gli uomini per sé.
La ragazza protestava sostenendo di non aver fatto nulla di male, quando Gina le mostrò le lettere incriminate: ella pianse affermando di non aver mai risposte a quei messaggi, ma ella non le credette e afferrò un coltello in cucina.
Bianca, alla vista dell'arma, impallidì e riuscì a sfuggirle lasciandole una ciocca nera tra le mani, Gina la lasciò cadere per terra rabbrividendo come se fosse stata una serpe.
Invece che tentare di uscire fuori di casa si rinchiuse nella propria camera da letto.
La madre, ormai in preda a una furia sfrenata e invasa da una forza impensabile per una donna minuta come lei, cominciò a scagliarsi contro la fragile porta, incurante delle schegge che le si conficcavano sugli avambracci e del dolore pulsante agli arti.
Quando finalmente riuscì a scardinare la porta si precipitò nella stanza osservandola incredula.
La figlia aveva acceso le candele di fronte allo specchio e guardava come ipnotizzata il proprio riflesso; in quel momento una fuggevole domanda passò nella mente della donna: dove diavolo aveva preso quello specchio dalla cornice antica e impolverata? Perché non ci aveva mai pensato prima d'ora?
Ma la furia della gelosia prevalse; la strattonò di nuovo per i capelli sbattendole il viso sul vetro dello specchio che però non s'infranse.
-Ti stavi ammirando, sgualdrinella? Guardati bene perché non incanterai più nessuno con quel tuo visino da streghetta...da quando sei nata mi hai avvelenato la vita, avrei dovuto buttarti da un ponte quando eri neonata, ma posso rimediare adesso...-
La figlia alzò lo sguardo e la fissò attraverso il riflesso dello specchio con i suoi pozzi neri; non sembrava volerla più supplicare, il suo tono di voce fu freddo e pacata: -Non ti rendi conto di quello che stai per fare...non sai quello che accadrà dopo...-
-Oh sì che lo so...schifosa puttanella- e la accoltellò alla schiena una, due, tre volte, il coltello penetrava in una carne che sembrava inconsistente.
La ragazza piombò a terra come un manichino, senza proferire alcun lamento, bianca come la neve, rossa come il sangue.
In fondo era stato più facile del previsto, Gina si passò il dorso della mano sulla fronte sudata con un sospiro di sollievo.
La notte caricò il cadavere in macchina e lo buttò dal fiume, nessuno l'avrebbe cercata, non aveva amici, né parenti, non andava a scuola da due anni.
Quell'essere sarebbe sparito nel nulla da cui era apparso.
Certo Leonardo l'avrebbe cercata, ma Gina gli avrebbe mentito dicendole di averla mandata da una zia per tenerla lontano da lui, si sarebbe rassegnato e sarebbe tornato da lei.
Il problema era che Leonardo non si lasciò convincere a desistere così facilmente.
-Dimmi cosa le hai fatto?! Dove l'hai mandata disgraziata!-
-Lontana da te. Non puoi pretendere di fare la corte a mia figlia quando hai una relazione con me.-
-Non ho nessuna relazione con te...mi fai schifo, mi hai mentito, sei una madre degenerata, ti disprezzo. Non aveva fatto nulla di male, non ha mai risposto alle mie lettere. Come fai a trattare in questo modo tua figlia!-
E non sapeva tutta la storia...Gina cominciò a sospettare che sarebbe stato difficile riconquistarlo.
In ogni caso poco male, la cosa più importante era essersi sbarazzata di quella diabolica mocciosa.
Così parve inizialmente non avere alcun rimorso per il delitto che aveva commesso, anzi una strana sensazione di euforia e sollievo la pervadeva: era di nuovo una donna libera di decidere della propria vita.
Così visse spensieratamente per un anno, evitando però di entrare nella stanza che era appartenuta a Bianca.
Fu quando però si avvicinò il primo anniversario della sua morte che atroci incubi cominciarono a perseguitarla: ciocche di capelli neri che sbucavano dal buio, una pallida e fredda mano che le si avvolgeva sul collo mentre delle orbite nere le risucchiavano l'anima.
Si svegliava urlando, terrorizzando il suo amante di turno che decise di non dormire più con lei.
Pensava di essersi liberata definitivamente di quella creatura quando ella tornava a perseguitarla nel sonno, quando più era indifesa.
Che cos'era stata quella ragazza? Era stata una giovane come tante? Da dove era saltata fuori? Da dove era sbucato quello che pensava esserne il padre?
Fu allora che Gina cominciò a porsi seriamente questi interrogativi.
E l'ultima frase che le aveva rivolto? Intendeva parlare di una giustizia umana, divina, o qualcos'altro che l'attendeva?
Si accorse di non aver mai saputo nulla di sua figlia, tranne che tutti gli uomini la trovassero irresistibilmente attraente non appena incrociavano il suo sguardo.
Era credente? In quale dio credeva? Come trascorreva le giornate rinchiusa nella sua stanzetta? A cosa servivano quelle candele? Dove aveva trovato lo specchio?
Per questo motivo rimise piede nella sua camera a un anno di distanza dalla sua uccisione.
Accadde dopo l'ennesimo incubo, ancor più terribile e verosimile dei precedenti, dopo il quale si svegliò zuppa di sudore e con il cuore che sembrava volerle squarciare il petto.
Dopo essere stata in cucina per bere una birra gelata, prese coraggio ed entrò in quella stanza.
Si avvicinò ai fogli sparsi nella stanza in cui la ragazza aveva tracciato dei bizzarri disegni che, fino ad allora, Gina non aveva mai osservato con attenzione.
In essi vi erano tracciati, con un talento di cui solo in quel momento si era accorta, dei simboli, uno scarabeo e un'insolita colonna con quattro linee verticali che l'attraversavano, ricordando una colonna vertebrale, ma il disegno più inquietante per Gina fu quello di un'ombra di una sagoma maschile che le era molto famigliare, una figura che ella non pensava che Bianca Rosa avesse mai visto.
Tutti i disegni erano cosparsi da segni sconosciuti che ella non era in grado di decifrare.
Pensieri caotici l'assalirono: da dove era venuto quell'uomo la cui sagoma inconfondibile era stato riprodotta da quella che probabilmente era sua figlia? Chi era veramente e perché non aveva mai cercato di scoprirlo?
Nascosti in fondo a un cassetto trovò due oggetti che rappresentavano i simboli che la ragazza aveva disegnato, lo scarabeo e la colonna, riccamente intarsiati e probabilmente d'oro e pietre preziose: dove accidenti li aveva mai trovati dato che sembravano essere molto preziosi?
Fu in quel momento che sentì un vocione tuonare alle sue spalle: -Li abbiamo cesellati per lei, la figlia del nostro signore.-
Con uno strillo si lasciò scappare di mano la piccola colonna e si voltò per vedere chi avesse parlato: una strana creatura dalla corporatura tozza e che non superava il metro e trenta di altezza la stava osservando dall'ingresso della stanza, con un ghigno sul volto pallido e baffuto, con occhi verdastri che rilucevano nel buio.
-Chi sei?!- Riuscì solo chiedergli con una voce che pareva un rantolo.
-Siamo i dvergar, nati dalla carne putrefatta di un dio defunto.-
Fu in quel momento che dal buio sbucarono altre sei creature simili a lui.
-Andate via o chiamo la polizia-, provò a minacciare lei, rattrappendosi contro la parete.
La loro risata collettiva risuonò terribile nella casa, ella si portò le mani alle orecchie nel vano tentativo di attutirne il rumore che però continuava a rimbombarle nel cervello.
-Noi siamo venuti qui per accompagnare la nostra signora, perché ella desidera mostrarti il nostro regno. Guarda lo specchio-
Gina lo fece...quello specchio misterioso sbucato chissà da dove.
Ne osservò con maggior attenzione gli intarsi dorati, le pesanti decorazioni che rappresentavano nodi e intrecci che sembravano cambiare forma in maniera impercettibile.
Fu allora che Gina vide una sorta di nebbia impadronirsi della superficie riflettente è udì dei passi leggeri a lei noti provenire da dietro lo specchio.
Chiuse gli occhi e scosse la testa: non voleva sapere chi stesse per uscire fuori da quella foschia.
Una mano gelida le sfiorò la fronte, mentre l'odore di fiori marciti nell'umidità di una tomba si spandeva per la stanza.
-Mamma, guardami-le sussurrò.
Non voleva farlo per nulla al mondo, eppure i suoi occhi sembravano avere vita propria e non le obbedivano; si aprirono mostrandole un essere che era Bianca Rosa, ma anche qualcos'altro.
Il pallore aveva preso il sopravvento sul suo volto, facendo scomparire il rossore delle guance, gli occhi erano delle orbite nere e abissali, ma la bocca era di porpora.
Le onde dei suoi capelli fluttuavano nell'aria e si protendevano verso Gina come famelici serpenti neri; indossava ancora gli abiti del giorno in cui l'aveva uccisa, solo che ora erano sporchi e consunti e i suoi piedi erano scalzi.
-Non può essere vero....tu sei il demonio, l'ho sempre saputo.- Singhiozzò la madre cercando di sottrarsi alle carezze ripugnanti della figlia.
-Vieni con noi, ti faremo rivedere papà...grazie a te ora viviamo insieme; ti prometto che sarai tu la più bella del regno-, sussurrò la creatura mentre le orbite nere luccicano.
Tutto ciò che desiderava in quel momento era sfuggirle, allontanarsi da quel mostro che aveva generato e vide la sua unica via d'uscita: la finestra aperta accanto a lei.
Vi si precipitò e si gettò dal settimo piano, preferendo la morte a quella visione: ma non morì subito.
L'ultima immagine che vide fu sua figlia, scesa in strada e accucciata vicino a lei: la ragazza, assorta, le sfiorò il viso e si toccò la guancia con la mano sporca del suo fluido vitale.... Bianca come la neve, rossa come il sangue...







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