sabato 4 agosto 2012

UNA FIABA ARCHETIPICA: "AMORE E PSICHE"

La fiaba di Amore e Psiche, contenuta nelle Metamorfosi (o L'asino d'oro) di Apuleio contiene in sè motivi che ricorreranno nelle fiabe più note. Dalla Bella e la Bestia, per via dell'unione sospettata d'essere mostruosa tra la fanciulla e il dio, a Barbablù, per il motivo della curiosità femminile punita, fino alla Cenerentola dei Grimm, nella sequenza delle prove che l'eroina deve superare. Il racconto è stato inoltre analizzato da G. Jung, rintracciando in esso uno degli archetipi più frequenti e positivi nel nostro immaginario che rappresenta la meta dello sviluppo dell'individualità. All'interno delle Metamorfosi la fiaba rappresenterebbe il destino dell'anima, che avrebbe tentato di accedere a un mistero che le era precluso e per questo motivo deve scontare la sua colpa con umiliazioni e prove impossibili prima di essere degna di ricongiungersi al dio.
Fu una volta un re in una certa città, e una reina, al tempo degl’Iddii, i quali avevano tre figliuole tutte e tre bellissime; ma le dua di più tempo, ancorchè, come io ti ho detto, fossero di singolar bellezza, potevan pure essere annoverate fra le donne umane: ma quella minore era adornata di sì maravigliosa e divina bellezza, ch’egli non sarebbe possibile esprimerla con umane parole. Finalmente, molti cittadini e forestieri, i quali venivano a rimirare così stupendo miracolo, attoniti per la indicibile leggiadria, mettendosi la man destra, col dito grosso sotto a quelli due che gli surgono accanto, in guisa di color che adorano, alla bocca, come se essa fosse stata Venere, religiosamente l’adoravano. E già era scorsa la fama per le città e per li paesi ivi vicini, e dicevasi che quella Dea, la quale il ceruleo mare partorì e la schiuma delle sue onde allevò, data pubblica copia della sua divinità, conversava nel mezzo della moltitudine degli uomini; o veramente, che per nuova disposizion delle stelle, non nel mare come l’altra volta, ma in terra una nuova Venere con virginali bellezze era piovuta. E più l’un dì che l’altro s’andava ampliando questa cotale openione, ed erane già sparsa la fama non solamente per tutte le città prossime, ma per le lontane provincie; e infinite schiere di mortali, molti mari solcando, lunghissimi viaggi facendo, concorrevano per vedere il miracolo di quella età. Nessuno a Pafo, nessuno a Gnido, niuno più a Citera per veder Venere navigava. I suoi sacrificj ei rimanevano da canto, i tempj rovinavano, i letti andavano male, le cerimonie erano abbandonate, i simulacri erano restati senza corona, e gli altari, divenuti vedovi, con fredde ceneri tutti macchiati ad ognuno si lasciavano vedere. Alla fanciulla si supplicava, la fanciulla si onorava, e nel volto umano si placava la Deità di Venere, e nel mattutino camminare della verginella con vittime e vivande si faceva propizio il nome di Venere. E già insino a’ popoli, mentre ella passava per le piazze, con fiori spicciolati e con ghirlande umilmente l’adoravano. Laonde la vera Venere, accorgendosi che le celesti cerimonie erano fuor di modo trasferite al culto d’una fanciulla mortale, grandemente si accese nell’animo suo; nè potendo aver più pazienza, piena d’indignazione, scotendo il capo altamente e fremendo, così diceva seco medesima: Ecco prima madre delle cose della natura, ecco principale origine degli elementi, ecco Venere nutrice di tutto ’l mondo, che ha compartito l’onore della sua maestà con una mortal giovinetta: ecco il nome mio nascosto nelle delizie de’ cieli, e fattosi palese fra le immondizie della terra. Gran fatto sarà per certo, se io con comune sacrificio dubiterò della scambiata mia venerazione, e adombrerà la immagine mia il volto d’una fanciulla, che dee morire! Indarno adunque quel pastore, la giustizia e la fede del quale approvò quel sommo Giove, per la mia eccessiva beltade mi prepose a tante Dee. Ma costei, chiunque ella sia, non si usurperà così allegra i miei onori: io farò ben io, ch’ella si pentirà di questa sua non lecita bellezza. E avuto a se quel suo figliuolo, quello alato e temerario, il quale co’ suoi perversi costumi disprezzando la pubblica disciplina, armato di fuoco e di saette, e discorrendo la notte per l’altrui case, e disturbando gli altrui matrimonj, commette senza tema e senza danno scelleratezze, e non fa mai altro che male; il quale, avvengachè per sua natia licenza e’ sia pur troppo rubesto, preso avendolo colle adirate parole, il menò a quella città; e mostratagli Psiche, che così era il nome della giovane, assai dappresso, e raccontogli come le cose eran passate, e dettogli della emulazione della bellezza, piangendo, e per la indignazione non potendo capir nella pelle, gli disse: Io ti prego, figliuolo, per lo legame della materna carità, per le dolci ferite delle tue saette, per le melate arsure di coteste tue fiamme, fa vendetta, ma altamente, della tua genitrice; e nella rubella beltà incrudelisci severamente, e fa che questa vergine arda veementissimamente dell’amor d’un uomo vilissimo, il quale abbia la Fortuna privato dell’onore, delle ricchezze, e d’ogni suo bene; e tale sia finalmente la sua miseria, ch’ella non trovi paragone per tutto il mondo. Ed insieme con queste parole abbracciandolo e baciandolo con quella più tenerezza ch’ella poteva, andatasene vicino al lito del mare, colle rosate piante calpestando la sommità delle risplendenti onde marine, non vi andò guari, ch’ella si ritrovò nel profondo; dove quello che appena ancora le ’ngombrava il desio, come se già l’avesse comandato, la ubbidienza dei marini Dei le ne procacciava incontanente. Eranvi le figliuole di Nereo, e dolcemente menando un ballo, con belle note vi cantavano una canzone: eravi Portunno colla schiumosa barba: eravi col seno pieno di pesci la Tara Salazia: eranvi i delfini carradori del giovane Palemone, solcando il mare da ogni canto; e le squadre de’ trombetti di Nettuno non si facevan desiderare. Questi colla sonora tromba faceva soavemente l’acque rimbombare; quelli con tenda di seta discacciava le vampe del nimico sole; quell’altro postosi innanzi a Venere ginocchioni, entro ad uno specchio le mostrava il suo grazioso volto; e molti sotto il suo carro destramente notando, co’ lor nuovi giuochi la empievano di diletto. E in cotal guisa accompagnava la piacevole moltitudine la madre dello Amore che s’era inviata verso l’oceano. Stavasi in questo mezzo la giovinella Psiche senza prendersi alcun frutto della sua bellezza: era guardata da tutti, lodata da tutti; ma nessuno, non re, non signore, non gentiluomo, o della minuta plebe almanco, veniva a richiedere le sue nozze: guardavano con maraviglia il divin volto, ma come se e’ vedessero una statua di egregio artefice perfettamente condotta, niente altro di lei che vederla chiedevano. Dove che le altre due maggiori sorelle, la temperata bellezza delle quali non era divulgata così per tutto, essendo da due re loro amanti state chieste per ispose, già più tempo fa felicemente godevano la loro giovinezza. La povera verginella, restatasi in casa, inferma del corpo, malcontenta dell’animo, si piangeva la sua vedovanza; e quello ch’era grato ad ognuno, ella odiava in se medesima, la disordinata bellezza. E il misero padre, dubitando dell’odio de’ celesti Dei, non sappiendo altro che farsi, se n’andò dall’antico oracolo del milesio Apollo; e con ricchi doni, grassi sacrificj, e umili preci, adorando così grande Iddio, addomandò marito per la non richiesta giovane. Ma Apollo, ancorchè Greco e Ionico, e lo fondatore di Milesia, con toscana voce così risposi Ferma questa fanciulla sopra un monte, Con ornamenti di funebri nozze; Nè genero sperare uomo mortale, Ma fiero e crudo, e ripien di veleno: Un che, volando, ognun stracca e fatica, E col ferro e col fuoco strugge il tutto: Del quale ha Giove tema e gli altri Dei. Tremònne fiumi e le tenebre inferne. Il già felice re, avendo udito le parole della terribile profezia, pigro e malcontento se ne ritorna a casa, e alla sua mogliera manifesta il comandamento del tremendo oracolo. Piangono, dolgonsi, lamentansi molti giorni; e già si appropinqua il tempo dell’atroce risposta: già si ordina l’apparato delle crude nozze; mutansi le allegre fiaccole in maninconosi torchj; cangiasi il suono de’ soavi flauti in urla querule e lamentevoli; e il lieto canto d’Imeneo si termina con mortifere strida: la nuova sposa col velo nuziale le copiose lagrime si rasciuga: e la città tutta malcontenta dello infortunio della dolorosa casa, mostra pubblico cordoglio; e per maggior dimostrazione del suo dolore, vieta con pene universali l’amministrazione della ragione. E venuto il giorno che la necessità della ubbidienza de’ celesti ammonimenti addomandava la miserella alla destinata pena, finite le crudeli cerimonie, fu tratto finalmente di casa il vivo mortorio, accompagnato con largo pianto da tutta la città; ed ella altresì tutta piena di lagrime accompagna non le nozze, ma l’esequie sue. E mentre che i maninconosi genitori, combattuti da tanto travaglio, indugiano di dare effetto alla crudele opera, la figliuola medesima con tali parole gli confortava: Perchè cruciate voi l’infelice vecchiezza con sì lungo pianto? perchè affaticate voi con così spessi gridi quello spirito, il quale più si dee chiamar mio che vostro? perchè con non profittevoli lagrime imbrattate voi quelle guance, che dovrebbono esser da me mai sempre onorate? perchè lacerate voi negli occhi vostri le luci mie? perchè stracciate ne’ canuti crini i miei biondi capelli? perchè il venerando petto, perchè le sante mammelle percotendovi, mi percotete le mie? Questo dunque vi sarà ricco premio della mia non mai simile veduta bellezza, procacciatovi con piaga mortale dalla inquietissima invidia? Tardi oramai, tardi vi accorgete del vostro male. Quando la moltitudine della gente mi celebravano con divini onori, quando per comune voce mi appellavano una nuova Venere, allora vi dovevate dolere; allora ve ne doveva rincrescere; allora mi dovevate piangere come morta. Già conosco io, già mi accorgo che io perisco solamente per lo nome di Venere. Menatemi adunque, e, dove la sorte mi ha giudicato, fermatemi a quello scoglio. Io bramo goder con prestezza queste future nozze: io desidero vedere quel mio generoso marito. Perchè differisco io? Perchè fuggo io, facendomisi innanzi colui ch’è nato per la rovina di tutto ’l mondo? E avendo detto loro la verginella queste e altre così fatte parole, con veloci passi mossasi nel mezzo della pompa del popolo che la seguitava, arrivarono al disegnato luogo. E poscia ch'egli ebber condotta la fanciulla nella sommità dello scoglio, abbandonate e lasciate quivi le fiaccole, le quali colle infinite lagrime avevan già spente, a capo basso tutti a casa se ne tornarono. E i miserandi genitori per l’angoscia di tanto travaglio, divenuti schifi della luce, serratisi in casa, si diedero alle tenebre d’una perpetua notte. Restata adunque la ubbidiente Psiche sulla cima di quello scoglio, tutta tremante e piangendo sempre si stette, insino a tanto che Zefiro colla sua piacevole aura dolcemente percotendola, col suo tranquillo fiato le fece seno della sua veste e dall’un fianco e dall’altro: il quale per la scesa d’una gran valle, che lì appiè si giacea, leggiermente portandola, posò nel fiorito grembo de’ suoi rugiadosi cespugli. Avendo Psiche disgombrata un poco la mente di tanti travagli, e riposandosi sopra al fiorito seno delle tenere erbette del soave luogo, un lieve sonno allagò le stanche membra di quello obblio, che discaccia in buona parte le tante cure de’ miseri mortali. Dal quale, posciachè ell’ebbe preso un convenevol ricriamento, con più riposato animo risvegliatasi, e’ le venne veduto un verde boschetto di natii e grandi arbori tutto ripieno, entro al quale con cristalline acque sorgeva una fontana, e nel mezzo del fronzuto bosco vicino al corso delle chiare onde della bella fonte nasceva un reale e magnifico palazzo, non da terrestri mani certamente ma da divine arti edificato; nè sarebbe alcuno, che nella prima giunta non giudicasse che così ricco e così bello edificio non fusse d’un grande Iddio. Imperciocchè, lasciamo stare che agli altissimi palchi, intagliati maestrevolmente di avorio e di cedro, sottentravano colonne tutte d’oro massiccio, ma le mura erano di finissimo argento ricoperte; entro alle quali si vedeano animali quasi d’ogni ragione, che pareva che si facessero incontro a qualunque arrivava in casa, intagliati con tanta maestria, che si poteva giudicare che uomo certamente ingegnoso e grande, anzi un semideo, anzi uno Iddio, fusse stato quello che con sì sottile intaglio avesse lavorato quello argento. I pavimenti erano di musaico di finissime pietre e di gioie sottilmente commesse, per le cui commettiture apparivano figure maravigliose: beati veramente si potevan dir coloro ben mille volte, a’ quali era concesso il calpestare i pendenti e le maniglie, come noi facciamo le pietre o i mattoni. Le altre parti della casa, le quali erano senza numero, erano state da buono architettore con convenevole larghezza e lunghezza benissimo compartite, e le mura di oro schietto rilucevano in guisa da per loro, che la casa si facea giorno, ancorchè il sole l’avesse a schifo; e uguale era lo splendor delle camere, così erano luminose le loggie, e in quella medesima guisa mostravano le porte la lor chiarezza. Nè erano le masserizie e gli abbigliamenti disconvenevoli alla maestà di tanto palagio. Sicchè tu avresti giudicato che quella fusse una stanza celeste, edificata per lo gran Giove, volendo egli alcuna volta avere l’umana conversazione. Invitata adunque Psiche dalla grandissima bellezza dello stupendo e maraviglioso luogo, si andava accostando più oltre; e di mano in mano più ardita, se n’entrò dentro alla porta: e prendendo ognora maggior piacere della bella vista, e ora una cosa e ora l’altra riveggendo, ella se ne salse su da alto; e veduto le guardarobe con grandissimo magistero condotte, piene di tante stupende ricchezze, s’immaginò quello che era in verità, che egli non fosse cosa al mondo che quivi non si ritrovasse: e quello che soprattutto la empieva di maraviglia, era, che sanza alcuna chiave, sanza alcuna serratura, senza guardia alcuna si custodiva là entro il tesoro di tutto il mondo. E mentre che ella con suo grandissimo piacere riguardava tanta felicità, e’ le venne udito una voce di corpo ignuda, che all’improvviso offertasele agli orecchi, le disse in questo modo: Perchè ti prendi, o padrona, tu così fatta maraviglia di tante bellissime ricchezze, le quali tutte sono le tue? Èntratene adunque in questa grande e bellissima camera, e messati nel letto, prendi riposo sintantochè da te sia partita cotesta tua stracchezza, e poscia, quando ti piace, vattene in quel bagno: noi, delle quali tu sola ascolti le voci, preste servitrici a’ tuoi bisogni, con gran diligenzia ti amministreremo tutto quello che ti sarà di mestiero: e curato che tu avrai il corpo, egli non ti mancheranno vivande regali, con gran prestezza e con soavità non picciola preparate. Conobbe Psiche la beatitudine della divina providenza, udendo gli ammonimenti delle invisibili voci; e pria col sonno e poscia col bagno discacciata da sè ogni gravissima stanchezza, le venne veduto lì vicino entro ad una bella e ricca stanza, fatta in guisa d’una luna, apparecchiata una tavoletta; ed estimandosi che ciò fusse stato apparecchiato e provvisto per sua ricreazione, tutta allegra là entro se n’entrò: e postasi a sedere a tavola, appena aveva finito di assettarsi i panni sotto, ch’ella vide esserle portato da invisibili spiriti un vino soavissimo, cibi vari, e in grandissima copia, e di finissimo sapore; e senza vedere alcuna persona, non altro di loro co’ sensi godeva, che il suon delle voci che lor cadevano; e sole voci per servire aveva. Levate le tavole, egli entrò dentro uno, e cantò non veduto, e un altro sonò la citara; nè la citara si vedeva; e un coro di più bellissimi e concordevoli suoni e accenti soavemente le empiè gli orecchi; nè alcuno agli occhi suoi si dimostrava. Finiti quei cotali piaceri, essendo già l’ora assai ben tarda, Psiche se n’andò a dormire: e quando la notte era assai ben in là col suo viaggio, udito un piacevole mormorio ingrombrarle gli orecchi, e veggendosi in tanta solitudine, tutta tremante e pavida dubitava della sua virginità, e più le pareva aver temenza di quelle cose che ella manco poteva pensare che nuocere le potessero. E già è presente l’incognito marito, e già è entrato nel letto, e già si ha fatta Psiche sua mogliera: e già venuta l’ora vicina al giorno, egli da lei con gran prestezza se n’è partito: ed eccoti la moltitudine delle voci, che compariscono in camera della nuova donna, e con ogni diligenza curano la ferita della rubata virginità: e quel giorno con gli altri con maravigliosa cura la provvedono di tutto quello che le faceva mestiero. E come è naturale a tutti, la nuova usanza di quelle voci per la lor continua conversazione già le cominciano a porgere grandissimo diletto, e ’l lor suono uno spasso della sua solitudine: sicchè assai contenta si passava le non bramate nozze. I miseri genitori in questo mezzo, sanza saper quello che della lor figliuola avvenuto fosse, nel continuo pianto e nella lunga doglia s’andavano invecchiando. Ed essendo pervenuta la fama del doloroso accidente agli orecchi delle due maggiori sorelle; afflitte e meste, abbandonata la propria casa se n’eran venute anzi al cospetto de’ lor genitori a condolersi con loro di tanta fortuna. E la medesima notte che elleno da casa s’erano partite, il marito di Psiche, il quale dal vedere in fuori non era avaro di soddisfare agli altri sensi, prese a parlare alla mogliera in questa guisa: La crudel Fortuna, la mia dolcissima Psiche, ti tende una pericolosa trappola, la quale con grandissima cautela ti fa mestiero cercar ch’ella non iscocchi: le tue sorelle, turbate per la falsa credenza della morte tua, ti vanno ricercando per ogni contrada, e tosto arriveranno a questo scoglio; delle quali se alcuno lamento ti venisse udito per isciagura, non solamente non risponder loro, ma non ti curar più di riguardarle; perciocchè altrimenti facendo, a me procacceresti dolor grandissimo, e a te la tua manifesta rovina. Acconsentì la mogliera agli ammonimenti del marito, e promiseli di far tutto quello ch’egli le ’mponeva. Ma essendo poscia partito al partir della notte, la miserella con amare lagrime tutto il vegnente giorno s’andò consumando, e dicendo infra sè stessa, che allora conosceva la sua disavventura; posciachè rinchiusa in così bel carcere, priva del colloquio umano, non solamente non potea aiutar le sue sorelle, che per lei cercare fussero affaticate, non con bagno, non con cibo, non con alcuna ricreazione sovvenirle; ma non pur l’era concesso riguardarle. E stata tutto il giorno in questo travaglio, venuto la notte, se n’andò a dormire: nè vi andò guari, che il marito tornato un poco più avaccio che l’usato, entratosene accanto a lei, e abbracciandola e baciandola, che ancora piangeva amaramente, come se di lei si volesse dolere, le disse: Così adunque, la mia Psiche, mi hai osservato la promessa? che poss’io dunque tuo marito più ripromettermi del fatto tuo? che sperare? posciachè il dì e la notte, e in mezzo a’ dolci abbracciamenti, dai luogo al tuo dolore? Governati oramai come ti piace, e ubbidisci all’animo tuo chieditor de’ tuoi danni; e ricordati almeno delle mie amorevoli parole, quando, benchè tardi, ti pentirai di questi tuoi folli pensieri. Allora ella con pieghevoli parole e con dolci lusinghe, e dimostrando di voler morire se egli non le consentiva ch’ella potesse mirar le sue sorelle, confortarle, abbracciarle, baciarle, e ragionarsi con loro, fece in modo ch’egli fu forzato a voler quel che voleva la sua nuova donna: e soprappiù le concesse ch’ella donasse lor quella quantità d’oro, di perle, di gioie e d’altre robe, ch’ella volesse. E poscia infinite volte l’ammonì, assai sovente la minacciò, molte volte la pregò ch’ella non fusse sì sciocca, ch’ella mai si lasciasse persuadere dal loro pernizioso consiglio, ch’ella ricercasse della forma del marito; e mossa da questa sacrilega curiosità, non si gettasse da lei stessa dal monte di tanti innumerabili beni nel profondo di tutte le miserie, e privassesi de’ congiugnimenti del suo caro marito. Posciachè Psiche lo ebbe ringraziato infinite volte, già tutta divenuta lieta, li disse: Prima muoia io, il mio dolce consorte, ben mille volte, ch’io mai perda la tua dolce compagnia: io ti amo, io ti adoro, e sii chi essere ti vuoli, io ti voglio ben come all’anima mia, nè con esso Cupidine ti cambierei: ma d’un’altra cosa ti vo’ pregare ancora, che tu comandi a quel tuo sergente Zeffiro, che in quella guisa ne conduca qui le mie sorelle, ch’egli ne condusse la tua mogliera. E appiccandogli certi confortevoli baci e saporiti, e con dolci abbracciamenti stringendolo, e colle dilicate membra accostandoseli, aggiunse queste così fatte carezze: Mia dolcezza, mia contentezza, marito mio, anima soave della tua Psiche. E offertoli le dolcezze dell’ultima mensa di Venere, così vinse lo innamorato Amore, ch’egli, ancorchè malvolentieri, tutto lieto le promise ciò ch’ella addomandava. E mentre che egli fra le materne dolcezze si stava, accortosi che l’Aurora voleva lasciar solo il suo Titone, egli si tolse delle braccia della sua Psiche, e volò via. Già erano le sorelle arrivate a quello scoglio, dove sapevano che Psiche era rimasa; nè sappiendo quivi altro che farsi, straccati gli occhi col pianto, percossesi le mammelle colle mani, e colle unghie stracciatesi le molli guance, facevano così sconcio romore, che il suono delle lor grida, sforzando i sassi e le caverne di quello scoglio, forzarono la misera Eco ad affaticare la voce sua: sicchè avendo più fiate chiamata Psiche per il suo proprio nome, la nuda voce portò il penetrabil suono delle loro stride agli orecchi di lei. Perchè ella quasi fuor di sè per una subita paura che l’assaltò, udendo le repentine grida, uscitasi di casa, se ne corse laddove elle si lamentavano; e disse: Perchè indarno vi affliggete voi con così miserande lamentazioni? perchè sì stranamente vi dolete? quella che voi piangete, è presente: lasciate le meste voci, e rasciugate le bagnate guance, poichè voi potete abbracciar colei ch’era cagione che le lagrime piovessero sì largamente, e che i lamenti volassero sì altamente. E così dicendo, chiamato Zeffiro, e ricordatili i comandamenti del suo signore, gli disse, che al palagio ne le portasse. Ed egli obbedientissimo, allora allora, senza alcun loro affanno, con lieve aura le condusse al desiato luogo. E posciachè con amorevoli abbracciari e lieti baci, posto le due freno alla doglia, si godevan l’una l’altra le tre sorelle, Psiche, piangendo per l’allegrezza, disse loro: Entrate nelle nostre stanze, e ricreate le afflitte anime insieme colla vostra Psiche. E mostrando le ricchezze dell’aurea casa, la bellezza del luogo, e facendo pervenire alle loro orecchie l’obbediente suono della popolosa famiglia, entro a un gentile bagno, e a mensa non con umane arti fabbricata, con regali vivande abbondantemente le ricreò. Ma la sazietà e la gran copia di quelle celesti ricchezze già aveano entro al petto delle due sorelle stuzzicato il veleno della rabbiosa invidia; nè restava una di loro di domandare Psiche punto per punto, filo per filo, e segno per segno, chi fusse il padrone di quelle maravigliose ricchezze, chi fusse e come fusse questo suo marito. Nè ella però obbliata de’ comandamenti del suo consorte, fece palese pur uno de’ segreti del cuor suo; ma infingendo così alla sprovvista una sua risposta, disse, che egli era un certo bel giovane, nel cui bel volto appena appariva alcun segnuzzo di barba, il quale i più de’ suoi giorni per li boschi dietro alle fiere se n’andava spendendo: e dubitando che alcuna nota del precedente parlare non le scoprisse i suoi segreti consigli, avendole in prima cariche d’oro e d’ariento, e d’altre robe d’infinito pregio, chiamò Zeffiro, che subito le riportasse. E mentre che le venerabili sirocchie se ne ritornavano a casa, avendo già il fiele della invidia allagato lor tutto il petto, elle andavano con assai dispettose parole così fra loro ragionando della semplice Psiche; e finalmente disse l’una: O cieca, o crudele, iniqua Fortuna, così ti è paruto giusto, che fra quelle che sono d’un medesimo padre e d’una medesima madre generate, si conosca tanta disagguaglianza, che noi, che le maggiori siamo, ci troviamo maritate, anzi vendute per ischiave a mariti stranieri, lontano dalla patria nostra, dalla casa nostra, e da’ nostri parenti, in peggior luogo che se noi fussimo andate in esilio; e questo rimasuglio, il quale lo stracco ventre ha gittato fuori nell’ultimo parto, oltre a tante ricchezze, gli è concesso godersi uno Iddio per suo marito, che non sa ella stessa che cosa sì sia così fatta ventura? Vedesti ben, la mia sirocchia, quali robe sono in quella casa? quanti pendenti, quanti vezzi, quante maniglie! che gemme vi rilucono, che veste vi risplendono, quanto oro vi si calpesta! Che se per nostra disgrazia il marito è anche sì bello come ella dice, egli non è donna al mondo che sia più felice di lei: e ch’è peggio, che essendo egli Iddio, e’ farà tanto questa lor lunga consuetudine, e tanto lo stimolerà il coniugale amore, ch’egli sarà costretto far diventare ancor lei una Iddea: anzi l’ha già fatta per mia fede; così si portava, così faceva: già ha dritti gli occhi nel cielo, già rende odor di divinità quella donna, a cui le ignude voci servono come donzelle, a cui obbediscono i venti come famigli: ed io tapina, la prima cosa, ho avuto un marito più vecchio di mio padre, più rimondo che una zucca, più voto che una canna; il quale non è buono se non a guardar la casa, e serrarla con mille stanghe e con mille catene. E l’altra allora: Lascia dire a me, che ho a sopportare un marito torto bistorto, che non ha giuntura addosso che e’ non se ne dolga; il quale appena di cento anni un tratto, e quello male, mette i rugginosi e debili ferri nel mio giovine orticello; nè mai c’è altra faccenda col fatto suo, che stropicciarli le dita; e sai, la mia sorella, ch’egli è come toccar le pietre a fargli le fregagioni o alle braccia, o alle gambe, o presso ch’io nol dissi: e pensa da per te, come quelle puzzolenti medicine con panni sudici e con gl’impiastri fetenti mi conciano queste mie dilicate mani: nè sono verso di lui i miei ufficj quelli della buona moglie, ma quelli d’una affaticata fanticella. Eh la mia sirocchia, egli mi par che con troppo paziente animo, anzi servile (io dirò liberamente come io l’intendo) che tu comporti cotanto oltraggio: io per me non posso sofferir sì felice fortuna caduta nelle costei mani indegnamente. Non vedevi tu con quanta superbia, con quanta arroganza ella si portava con esso noi? e come con quella vanagloriosa ostentazione ella dimostrava quel suo animo gonfiato? Non ponesti tu mente, che di tante ricchezze come malvolentieri la ce ne diede questa picciola particella? e come tosto, offesa dalla nostra presenza, ella comandò al soffiar de’ venti, che ce ne rimenassero? Nè mi parrà mai esser donna, nè viver certamente, insino a tanto ch’io non la fo tombolar giù di tanta felicità: e se la comune ingiuria t’ha acceso l’animo ancora a te, come sarà conveniente, amendue penseremo del modo, e prenderemo sopra di ciò saldo e buon consiglio. Queste cose che noi portiamo, a me non par che noi nè a’ nostri genitori nè ad alcun altro le dimostriamo; anzi fingiamo di non avere avuto notizia delle sue prosperità; e quello ch’avemo veduto noi, che ce ne rincresce, non lo bandiamo a tutto il popolo: nè sono già ricchi coloro, le ricchezze de’ quali conosce nessuno: e in questa guisa ella si accorgerà che noi non le siamo schiave, ma sì ben sorelle maggiori. Andiamo al presente da’ nostri mariti, e ritorniamo a veder le nostre povere cose, e poscia armate di miglior pensieri con gran punizione assalteremo la sua incomportabile superbia. Piacque come buono alle due pessime il pessimo consiglio, e ascosi quei grandi e ricchi tesori ch’avea lor donati la buona Psiche, con isparsi crini e simulati pianti, colle loro cattive novelle rinfrescarono il dolor de’ miseri genitori; e così mal consigliate, piene di veleno, e infuriate, ordinando contro alla incolpevol sorella lo scellerato inganno, anzi procacciandole la morte, se ne ritornarono alle lor case. Non restava in questo mezzo infra i suoi notturni ragionamenti il non conosciuto marito di ammonire la sua mogliera; e le diceva: Tu non ti accorgi, la mia Psiche, in che rovina accenni la Fortuna spingerti, standoti ancor discosto; nella quale se tu non ti avrai diligentissima cura, fattasi più vicina, ella ti farà rovinare senza fallo alcuno. Le perfide puttanelle, con quello sforzo ch’elle possono il maggiore, ti vanno ad ognor tendendo mille lacciuoli, de’ quali questo è il maggiore, ch’elle ti vogliono persuadere che tu veggia il volto mio; il quale, come io ti ho già predetto più fiate, tu non vedrai: però se da quinci innanzi quelle pessime streghe verranno da te con sì perverso animo (io so certo ch’elle verranno), non parlar loro per niente: e se pur per la tua natural semplicità, e per la tenerezza dell’animo tuo, egli non ti dà il cuore di fare il mio volere, almeno non porger gli orecchi a cosa ch’elle parlino del marito, nè risponder cosa del mondo. E noi già, la mia dolcezza, moltiplicheremo la nostra famiglia; che porta seco questo tuo giovincello ventre un altro giovincello, il quale, se nasconderai i nostri segreti, sarà divino, se gli discoprirai, sarà mortale. Brillava Psiche, e per lo sollazzo della divina progenie tutta ardeva di letizia: rallegravasi per la gloria del futuro figliuolo, e della dignità del materno nome si godeva grandemente; e già piena di sollecitudine divenuta e i vegnenti giorni e i preteriti mesi numerava; e riguardando i principj della nuova soma, non poteva non maravigliarsi che di sì picciola puntura fusse tanto gonfiato il ricco ventre, nè se ne poteva dar pace a modo alcuno. Già era venuto il tempo che quella mortal peste, quelle spaventose furie, soffiando veleno come le vipere, navigavano alla volta della sua rovina; laonde il momentaneo marito, che di ciò s’accorse, con queste nuove parole la sua moglie confortava: Il giorno ultimo, lo estremo caso, lo infesto sesso, lo inimico sangue già ha preso l’arme contro di te; già hanno mosso il campo, ordinate le squadre, dato il segno; e già le tue iniquissime sirocchie colle spade ignude non vanno altro chieggendo che la tua gola: oimè! da quanti travagli siamo noi assaltati, la mia Psiche! abbi pietà di te e di noi, e con religiosa continenza libera dal soprastante infortunio la casa, il marito, te, e cotesto nostro figliuolo; nè volere quelle scellerate donne (cui dopo il pestifero odio, dopo il troncar del vincolo del nostro sangue, egli non ti è lecito di nominar sorelle) o vedere, o udire, quando poste sopra dello scoglio colle spaventevoli voci elle faranno i sassi rimbombare. E Psiche allora, singhiozzando, che appena s’intendevan le sue parole, rispose: Tu hai veduto già più tempo fa, per quanto io mi do ad intendere, la esperienza della mia fede e delle mie poche parole, nè per lo avvenire sarà da te manco approvata la fermezza dell’animo mio; e però comanda di nuovo al nostro Zeffiro, che usi con loro il medesimo uficio dell’altra volta; e invece del tuo negato sacrosanto cospetto, lasciami fruire la vista delle mie sirocchie; e per questi tuoi d’ogni intorno odoriferi e scherzanti capelli, per le tenere e ritondette guance, e in ogni parte simili alle mie, se io almeno in questo pargoletto riconosca la immagine tua, pregato dalle pietose parole della supplice e affannata tua donna, consentile il frutto de’ sirocchievoli abbracciamenti, e ricria l’anima della tua divota e obbligata Psiche: nè altro più ricerco io del tuo bel volto, nè mi dan più noia le notturne tenebre, purch’io tenga te mio lume e mio splendore. Da queste e altre simili parole e dolci abbracciamenti incantato lo innamorato marito, rasciugando le di lei lagrime co’ suoi capelli, fu forzato prometter ciò che ella desiderava. E poscia, anzi che le stelle avessero reso al sole il lume loro, partitosi Amore, lasciò Psiche soletta, come era usato, entro al suo letto. In questo mezzo le due concordevoli sorelle, senza pure aver fatto motto al padre loro, montate in nave, senza aspettar buon vento altrimenti, per forza di remi, per la più corta drizzarono le navi verso il nominato scoglio; e arrivate ch’elle furono, non iscordatosi Zeffiro del regale comandamento, presole nel grembo della spirante aura, ancorchè contro a sua voglia, le pose appiè del bellissimo palagio. Ed elleno senza alcuna dimora entratesene dentro, abbracciando e baciando la lor preda, e ricoprendo il seno delle lor frode col mentito nome della sirocchia e con allegro volto, così l’andavano adulando: O Psiche nostra, non fanciulla più oramai ma donna, posciachè tu se’ madre, quanto nostro bene pensi tu di portare entro a cotesto grembo! con quanta allegrezza allagherai tu tutta la casa nostra! O beate a noi, cui empierà di letizia quello che è fra tanto oro nutricato; il quale se, come è necessario, risponderà alla bellezza del padre, io non dubito che egli nascerà un altro Cupido. E simulata in questa forma una carnale affezione, pigliavano i passi per assaltare a man salva il disarmato animo della semplice sorella. E come prima col sedersi un pezzo elle ebbero discacciata la stanchezza della via, la buona Psiche, fattole passare entro a certe magnifiche stanze, con ottimo vino e soavissime vivande le ricreò. E posciachè furon levate le tavole, comandato alla citara che parlasse, egli si udì la sua melodia; a’ flauti, che sonassero, esse ascoltarono i dolci accenti; a’ conserti, che spiegassero le lor note, esse sentirono i lor canti: le quali musiche tutte, senza che alcuno si vedesse, con soavissima melodia pascevano gli animi di tutti coloro che l’udivano. Ma egli non furon però così dolci, ch’egli rammorbidassero la perfidia delle scellerate femmine, le quali, annestando ragionamenti che conducessero la povera Psiche ne’ destinati lacci delle lor frodi, senza che paresse lor fatto, la cominciarono a domandare chiunque fusse questo suo marito, e di che schiatta venisse la chiarezza de’ suoi maggiori. Allora ella per soverchia semplicità, dimenticatasi del parlare dell’altro giorno, trovò un’altra sua nuova favola, ch’egli era d’una grandissima provincia, e trafficava di molti danari, e che egli era già arrivato a mezzo il viaggio del comun corso dell’umana vita, e appunto allora cominciavano i crini, ove uno e ove un altro, a imbiancarsi. Nè dimorando guari in questo ragionamento, avendo loro di nuovo empiuto di preziosissimi doni, le rendè alla ventosa treggia. Le quali mentre che dal tranquillo fiato del soave Zeffiro erano rimenate verso casa, con parole così un poco soprammano ragionando, disse una di loro: Che diciamo noi, la mia sirocchia, di quella sconcia bugia di quella pazzerella? Poco fa era giovanetto colle guance appena di tenera lanugine ricoperte, ora di mezzo tempo, sopra de’ cui crini è già cominciato a nevicare. Chi è quegli, il quale essendo giovane, che in sì picciolo spazio divenga vecchio? niente altro ritroverai, la mia sirocchia, che o questa pessima femmina infinge una grandissima menzogna, o ella non sa come si sia fatta la forma di questo suo marito: delle quali cose sia quale essere voglia, egli è da sterminarla di tanto bene: e s’ella non conosce il volto del suo marito, ella è sanza dubbio alcuno maritata a uno Iddio, e porta dentro al ventre un altro Iddio. Oh io ti dico ben, che se io udissi mai che costei fusse madre, la qual cosa tolga Iddio, d’un divino fanciullo, che io mi appiccherei per la gola: e però ritorniamo in questo mezzo dal nostro padre, e alla tela del nostro primo parlare tessiamo quelle maggior fallacie che noi sappiamo; e ritornando poscia da costei, vedremo con ogni miglior modo di dar effetto al nostro ragionevole pensiero. Nè prima fur giunte, che stimolate dalle furie della pestifera invidia, che giorno e notte le molestava, detto addio assai rincrescevolmente a’ lor genitori, di notte tempo messesi in via, la mattina a buon’ora se ne giunsero all’usato scoglio: e d’indi col solito aiuto volatesene alla casa di Psiche, e fattosi collo stropicciarsi gli occhi piover giù un rovescio di lagrime, con questa nuova trappola parlarono alla fanciulla: Tu felice e beata ti stai certamente per la ignoranza del tuo male, senza esser de’ tuoi pericoli curiosa; ma noi che con estrema diligenzia avemo cura alle cose tue, per li tuoi danni siamo miseramente cruciate. Noi avemo inteso per cosa certa (nè a te il possiam celare, ben che appena soffra l’animo di raccontarlo, tanto è sì grande infortunio), che uno smisurato serpente, il quale tuttavolta sta colle venenose fauci per imbrattarsi del sangue tuo, nascosamente si giace teco tutte le tue notti. Ricordati al presente dello spaventevole oracolo di Apolline, il quale disse che tu eri destinata alle nozze di un’atroce bestia. Molti lavoratori e cacciatori, che quivi intorno costumano di ritrovarsi, e altri paesani lo videro iersera, tornando da cibarsi, andare qua notando per questo fiume vicino; e tutti affermano per una voce, che le sue carezze non dureranno molto, ma ch’egli, come più tosto il tuo ventre sarà vicino all’ora del desiderato parto, essendo allor più grassa e più piena, ti divorerà. Oramai sia tuo il pensiero, se tu vuoi prestar fede alle parole delle tue sorelle sollecite per la tua salute, e schifata la morte, viverti con noi sicura da tanto pericolo; o veramente, sprezzando il nostro consiglio, brami piuttosto rinchiuderti nelle viscere di quella bestia. E sebben la solitudine di queste voci, questa solitaria villa, e i puzzolenti e pericolosi congiugnimenti della non veduta Venere, e i velenosi avvolgimenti di questo crudel serpente ti dilettano, a noi basterà aver fatto l’uficio delle buone sorelle. Udendo la povera Psiche così fatta novella, come semplice e tenera d’animo ch’ella s’era, tanto timore la sopraggiunse, che uscita fuor di sè, e dimenticatasi de’ buon ricordi del marito e delle sue promesse, ella si gittò nel profondo del pelago delle sue calamità; e divenuta nel volto come di terra, e tremando a foglia a foglia, con parole tronche, e con inferma voce, disse: Voi, le mie carissime sirocchie, come era convenevole, avete osservato il debito uficio della vostra pietà; e coloro che vi hanno detto così gran cosa, non credo già che dicano le bugie; perciocchè io non ho mai veduto il volto di questo mio marito, nè seppi mai di che gente o donde egli si fusse: ma ascoltando alcune sue notturne voci, mi ho sopportato un non conosciuto animale, e uno che è nimicissimo della luce, e come molto ben dite voi, una qualche bestia, la quale sempre mi ha fatto paura con questo suo aspetto, e minacciatami d’una gran rovina, ogni volta ch’io sia curiosa di volerlo vedere. Ora se voi potete, procacciate alla vostra inferma sorella qualche giovevole medicina: soccorretemi oramai, e fate che la straccurataggine degli ultimi rimedj non guasti il beneficio de’ primi provvedimenti. ritrovato adunque le scelleratissime donne il nudo animo della meschinella colle porte aperte, lasciati i coperti lacci da canto, impugnate le spade, con manifeste frodi assaltarono le sue paurose cogitazioni; e disse una di loro: Perciocchè il vincolo della nostra origine non ci lascia a beneficio della tua salute scorgere alcun pericolo, noi ti metteremo per quella strada, che, secondo da noi è stato più e più fiate pensato, sola ti può condurre al bramato porto della tua salute. Prendi adunque un ben arrotato rasoio, e ascondilo in quella parte del letto dove tu se’ solita giacere; e abbi una buona lucerna piena d’olio, che faccia il lume chiaro, e nascondila dietro ad un panno d’arazzo o ’n qualche altro simile luogo, sicchè ella non apparisca in modo alcuno; e dissimulato tutto questo apparecchio, aspetterai la sera. E posciachè egli colli suoi soliti ravvolgimenti se ne sarà salito in sul suo letto, che tu ’l sentirai russare, scesa del letto, a piedi ignudi, pian piano andra’tene con sospesi passi a pigliar quella lucerna. Posciachè tu avrai scoperto il lume, tu potrai col tuo valoroso ardimento prender quel partito che la opportunità sua ti consiglierà; e impugnato il tagliente coltello, alzando la destra con quella forza che tu potrai la maggiore, taglia audacemente il capo del venenoso serpente; e noi poscia non ti mancheremo, bisognando, del nostro aiuto. E come più ratto colla tua mano ti sarai guadagnata la tua salute, con grande sollecitudine ti aspetteremo, menatone teco queste tue compagne; e congiugnendo te donna con uomo, felicemente celebreremo le tue magnifiche nozze. E avendo colle accese fiamme di queste parole riscaldato le viscere della sfortunata, dubitando del fatto loro, per essere state le consigliere di così pessimo consiglio, fattesi portare colla forza dello usato vento sopra dello scoglio, abbandonata la sorella, subito se ne fuggirono. Ed ella rimasa sola, anzi in compagnia delle inquiete furie, e divenuta per la lor rabbia simile alle acque marine, ora verso lo scoglio e ora verso il porto guidava la ricca barca [p. 116]de’ suoi pensieri. E avvegnachè con ostinato animo già inclinasse al doloroso consiglio, ancora in dubbio di sè stessa ondeggiava colla mente, ed era combattuta da infiniti affetti della sua calamità: sollecita, differisce, ardisce, teme, spera, diffidasi, adirasi, s’acquieta; e quello che era più maraviglioso, in un medesimo tempo ha in odio la bestia, e amava il marito. Appropinquandosi nondimanco la sera, con assai sollecitudine ella appresta tutto quello che faceva mestiero intorno al fiero suo proponimento. Già era apparito la notte, già era venuto il marito, e avendo rotto nel campo di Venere le prime lance, già era seppellito nel sonno; quando Psiche, d’animo e di corpo non sana, aiutata dalla crudeltà del suo fato, tutta divenuta fiera, e cangiato il femminil timore in maschio ardimento, trasse fuor la lucerna, e prese il rasoio per insanguinarlo col sangue del suo marito. Ma come più avaccio i segreti del non conosciuto luogo per lo discoprimento del lume si manifestarono, ella scorse di tutte le fiere una mansueta e dolcissima bestia, quello stesso Cupido bellissimo di tutti gl’Iddii bellissimamente dormire; per lo cui aspetto, rallegratosi eziandio il lume della lucerna, divenne più splendido e più lustrante, e il taglio del sacrilego rasoio, eziandio divenuto in guisa d’una stella, pareva che se ne volesse volar verso il cielo. Ma Psiche in su questo principio impaurita, e divenuta del color del bossolo, tutta tremando, cadutasi a sedere sopra delle gambe, non sappiendo altro che farsi, volea nascondere il coltello entro al suo seno; e sarebbele venuto fatto, se non che il ferro per tema di sì gran peccato, volando, non si li fusse tolto di mano. Sicchè priva d’ogni aiuto e d’ogni consiglio, guardando interamente la divina bellezza del divin volto, tutta nell’animo si ricriava, e mirava la bionda chioma dell’aureo capo tutta d’ambrosia profumata: vedea gl’innanellati crini maestrevolmente disordinati pendere sopra della bianca fronte e sopra le purpuree guance; ed era lo splendor loro sì chiaro e sì potente, che il lume della lucerna appariva a fatica: contemplava le rubiconde penne, che dietro alle spalle del volante Iddio in guisa di mattutine rose fiammeggiavano; e godeva a vedere fra le più grosse penne alcune tenerine piume ballare al suono d’una dolce aura che vi spirava: così traboccava di letizia a vedere il giovin corpo e delicato, cotale che Venere non si poteva sdegnare ch’e’ fusse suo figliuolo. Innanzi a’ piedi del letto giaceva l’arco, la faretra, le saette, arme proprie del grande Iddio. Le quali tutte cose mentre che Psiche interamente considerava, mentre che ella quelle arme andava toccando, cacciata della faretra una di quelle saette, e’ le vien voglia di tentar come la pungeva: perchè accostatasela alla polpa del dito mignolo, ella sel punse in guisa, che ne uscì alcune picciole gocciole di sangue. E così la semplicella, senza saper come, da sè a sè s’accese dello amore di esso Amore: e divenuta soverchio cupida di Cupido, postasi bocconi sopra di lui, stemperandosi per lo amor grande, dubitando nondimeno che ’l tempo non passasse del suo soverchio dormire, con lascivi e dolci baci baciandolo, cercava di ammorzare in parte il suo gran fuoco. E mentre che ella, ubbriaca divenuta per tanta dolcezza, non sapeva che farsi, quella lucerna, o per sua natia perfidia, o che la invidia dell’altrui contento la stimolasse, o che pur un subito disiderio di toccare e baciare anch’ella quel bellissimo corpo le nascesse, ribollendo così un poco in sulla cima del lucignolo, ella schizzò una gocciola sulla destra spalla del grandissimo Iddio. O audace e temeraria lucerna, ministerio vilissimo di Amore! tu dunque lo Iddio di tutto il fuoco abbruci? essendo uno amante stato la cagione dell’esser tuo; il quale, per potere eziandio la notte godere il suo disiderio, fu di te il primiero inventore. Sentendosi adunque Amore inceso in quella guisa, subito si rizzò; e per diffalta della manifestata fede, spiegate le ale, incontanente volandosene, si volse tor dagli occhi e dalle mani della infelicissima moglie. Ma ella, come più tosto il vide muovere, preseli con ambe le mani la destra gamba, e stretta tenendola, così pendendo per l’aere il seguitò, sinchè stracca, non potendo più stringere le mani, se ne cascò per terra: nè la volendo però l’amante Iddio, mentre ch’ella così giaceva abbandonare, volato sopra d’uno arcipresso, che era quivi vicino, dall’alta cima tutto sdegnato le disse: Facendo io poca stima, o semplice Psiche, de’ comandamenti della mia madre, la quale m’impose, che riscaldando il petto tuo dello amore del più vile e più vituperoso uomo che fusse al mondo, io fussi cagione che egli ti divenisse sposo, in quello scambio tuo amante divenuto, da te me ne volai: ma io fui in ciò soverchio leggieri, il conosco or troppo bene, chè come destro arciere mi trassi sangue colle arme mie, e feciti mia mogliera, acciocchè io ti paressi una bestia, e che tu mi tagliassi colle arme tue quel capo, in cui dimorano quegli occhi che ti amavano cotanto. Quante fiate ti dissi che tu ti guardassi da questo? con che amorevoli parole te ne pregava io? Ma quelle tue valorose consigliere tosto tosto pagheranno la pena di così bel magistero: a te non darò io altra punizione che ’l fuggir mio. E battendo le penne, insieme con gli ultimi accenti di queste parole se ne volò via. Rimasa Psiche come una cosa balorda, non sappiendo altro che farsi, riguardando dietro al marito finch’ella il potè vedere, gli avrebbe voluto chieder mercè; ma nè la voce nè la mente erano capaci delle forze loro. Come il volar delle amorose piume portarono Cupido in parte dove non arrivava la speranza di poterlo o prendere o vedere, ella, fuor di sè, accostatasi ad un’alta ripa d’un fiume ch’era quivi vicino, si volse torre dalla penosa vita; e lasciatasi ire, si ritrovò entro al seno delle fuggitive onde. Ma il clemente fiume in onor di quello Iddio che suole alcuna volta mettere il fuoco in mezzo alle acque, dubitando di sè medesimo, con piacevole rivolgimento del corso suo la riportò sopra d’una ripa di tenere erbette e di fiori odoriferi ripiena. Sedevasi appunto allora, per ventura, sulla ripa di quel fiume il rusticano Iddio Pane, e avendo in mano la bella Siringa, le insegnava ritenere entro a sè la dolcezza di tutte le voci; e vicino a lui alquante caprette, rodendo or questo or quel virgulto, scherzavano colle verdi frondi: perchè veduto il piloso Iddio la stanca e affannata giovane, non ignorante delle sue fortune, e di lei tutto compassionevole divenuto, con benigna voce a sè chiamandola, con queste amorevoli parole confortandola, sì le disse: Bella fanciulla, ancorch’io sia un rozzo guardiano di lanosi armenti, nientedimeno per beneficio di molti anni io ho apparato assai cose; laonde, secondo ch’io posso far conghiettura (che è quello che i prudenti uomini chiamano indovinare), a quel dubbio andare, a que’ tremuli passi, a quella soverchia pallidezza, a’ continovi sospiri, agli occhi lagrimosi mai sempre, tu mostri d’essere innamorata agramente: ascolta adunque le mie parole, nè essere così presta a gittarti giù per le balze; ricerca con altra morte spegner la tua eccessiva bellezza; lascia il pianto, pon freno al dolore, e cerca piuttosto colle preghiere mitigare Amore, grandissimo di tutti gli Iddii, e obbligartelo colle parole: la qual cosa ti fia vie più agevol che tu non credi, essendo egli giovanetto dilicato, e lascivo sopra tutti gli altri Iddii. Posciachè il pastore Iddio le ebbe dette queste parole, Psiche, senza rendergli altra risposta, adorata prima la sua salutare deità, senza sapere dove si gisse, seguitò suo viaggio: e innanzi che ella fusse andata gran fatto in là, ella arrivò ad una certa città, nella quale regnava il marito d’una delle sue sorelle. La qual cosa udendo Psiche, subito se ne venne al real palagio, e fatto intendere alla sirocchia, come aveva disiderio di parlarle, subito introdotta dentro, posciach’elle ebber fatte le vicendevoli accoglienze, e che quell’altra la ebbe domandata della cagion della sua venuta, ella le disse: Io so che voi vi ricordate del vostro consiglio, col quale voi mi persuadeste che io con tagliente coltello ammazzassi quella bestia, prima che colle bramose zanne egli m’inghiottisse, che con mentito nome di marito si giaceva con esso meco; ma come più tosto, secondochè noi eravamo rimase d’accordo, io scopersi il lume, e vidi il volto suo, io vidi un divino, un maraviglioso spettacolo: io vidi quello figliuol di Venere, quello stesso Cupido bellissimo di tutti gl’Iddii dolcemente dormirsi; e mentre che io commossa dalla subita vista di tanto bene, e alterata dalla soverchia copia di sì grandissimo sollazzo, io combatteva colla carestia del godermelo (o crudel Fortuna!), la invida lucerna schizzò una importuna gocciola d’olio caldo sopra d’una delle sue spalle; per lo cui dolore egli subitamente risvegliatosi, e di arme e di fuoco armata veggendomi, disse: Tu, che dunque ardisci tanta crudeltà, partiti subito del mio letto, e pigliati le cose tue, ed io mi prenderò la tua sorella (e nominotti per lo tuo proprio nome) per mia cara donna: e detto questo comandò a Zeffiro subitamente, che me ne portasse fuor de’ termini della casa sua. Nè avea Psiche finito appena questo parlare, che la pazza sorella, agitata da’ furiosi stimoli delle false nozze, e da una crudele invidia, che di continovo la rodeva, infinto non so che menzogne, e dato ad intendere al marito, ch’avea inteso non so che romore della morte del padre, d’indi partitasi, se ne montò in su una nave, e dato de’ remi in acqua, il più tosto che potè se ne venne al bramato scoglio. E tratta dalla falsa credenza, sanza guardare che vento si traesse: Prendi, dicendo, o Cupido, quella mogliera che a te solo è convenevole; e tu, Zeffiro, ricevi la tua padrona: si gittò giù di quel sasso; nè ebbe tanta grazia, che almeno così morta ella arrivasse al desiderato luogo; imperocchè lacerando e stracciando le sue membra su per quei taglienti sassi, seminò le sue interiora per quelle balze, e fu pasto delle rapaci aquile e degli altri simili uccelli: e cotale fine ebbe la cieca invidia e la folle speranza della maligna sorella. Nè indugiò lungo tempo la vendetta di quell’altra; imperocchè Psiche con incerti passi arrivata alle sue case, e indottola colle medesime fallacie nella medesima speranza, ella le fece fare un medesimo fine. Non lasciava in questo mezzo Psiche alcuna parte del mondo, che ella non ricercasse, per vedere se potesse il suo caro marito ritrovare, il quale, per la doglia del cociore di quella lucerna rammaricandosi, si giaceva nel letto della sua madre. Allora quel bianco uccello che suole del continuo colle acquatiche anitre guerreggiare, tuffatosi entro alle onde, se ne andò infino nel profondo dell’Oceano; e ritrovata Venere, che notando su per le marine acque si lavava le dilicate membra, accostatosele, le raccontò l’arsura del suo figliuolo, e il dubbio della sua salute, e com’egli, lamentandosi altro non faceva che giacere; aggiugnendo che per comune voce di tutti i popoli oramai si parlava soverchio disconvenevolmente della famiglia di Venere; che Amore per li monti colle meretrici, ed ella per le onde marine diportandosi, dal consorzio umano si stavano sequestrati; perchè egli non si gustava più piacere alcuno, nessuna grazia si scorgeva, niuna gentilezza s’usava: anzi ogni cosa era in dispregio, il mondo insalvatichito, gli uomini rozzi e villani diventati; non nozze sollazzevoli, non amicizie compagnevoli, non amor di figliuoli; ma una pioggia di squallidi congiugnimenti, e un fastidio d’ogni cosa cresceva sopra la terra. Queste e altre simili parole soffiando negli orecchi di Venere, lacerava quel garrulo e soverchio curioso uccello il suo figliuolo. Laonde ella, messa subito una grandissima voce, disse: Adunque si tiene quel mio figliuolo la concubina? deh! di grazia tu, che solo se’ così amorevole ne’ miei servigj, dimmi il nome di colei, la quale ha stimolato per sì fatta maniera un nobil fanciullo senza barba, o se ella è del gregge delle Ninfe, o del numero delle Iddee, o del coro delle Muse, o della famiglia delle mie Grazie. Non celò ancor questo segreto il loquace uccello, e disse: Io non so ben, la mia padrona, le sue qualità, pur mi par essere accorto ch’ella sia donna mortale, e se io me ne ricordo bene, Psiche la ho sentita nominare. Non potè più Venere, udendo sì fatto nome, e raddoppiato, anzi per ognun cento accresciuto lo sdegno, gridò forte: E tanto peggio: Psiche adunque, l’emula della mia bellezza, la mia vicaria, la involatrice del nome mio, ama questo pessimo di tutti gl’Iddii? E quello che mi raddoppia la stizza, che ci sono stata adoperata per ruffiana; posciachè per lo mio mostrargliele, egli ne è amante divenuto. E con queste e altre più querule parole rammaricandosi, con gran fretta uscitasene del mare, se n’andò alla sua aurea camera; e ritrovando esser vero tutto quello che le era stato detto, cominciando a gridare fin dalla porta, diceva: Belle opere son queste per certo, e convenienti alla nostra nobiltà! la prima cosa mettersi sotto a’ piedi i comandamenti della sua madre, anzi della sua signora: e un fanciullo dell’età che se’ tu. prendersi per sua colei, che come mia capitalissima nimica io ti aveva imposto che con vilissimo amore tu cruciassi; e congiugnersi con sì ignobil femmina a’ suoi non leciti e immaturi abbracciamenti, acciocchè Venere avesse a sopportare di vedersi per nuora una sua vil fanticella. Ma tu ti dai forse ad intendere, sciocco che tu se’, guastatore d’ogni cosa, che non se’ buono se non tra il tuo fuoco e fra le tue fiamme, che io sia così vecchia, ch’io non sia più abile ad ingravidare? Io voglio adunque che tu sappi, che io sono per generare un altro figliuolo, il quale sarà molto migliore che non se’ tu: anzi, acciocchè tu ti accorga meglio dello error tuo, io voglio adottare un di quei miei schiavetti, e a lui donar le penne, le fiamme, l’arco, le saette, e tutta la mia masserizia, la quale io ti diedi, a cagione che tu l’usassi ad esercizio migliore; delle robe del padre tuo, non ce n’è alcuna che sia alle tue arti accomodata. Ahime! che tu fusti troppo male allevato nella tua fanciullezza: tu hai le mani troppo ben preparate a far male; e tante volte con poca riverenza hai battuto i tuoi maggiori, e la stessa madre tua, me dico, me medesima, omicida crudele, ogni dì mi vituperi, ogni dì mi percuoti e dispregimi; non altrimenti che s’io fussi una povera vedovella. E in oltre ti fai beffe del patrigno tuo, di quel ferocissimo e gran guerriere; e per mio maggior dispregio e dolore mille e mille volte gli hai procacciate.... Ma io ti prometto di trovar via, che tu sarai punito di cotesti tuoi scherzi, e che coteste tue nozze ti sapranno d’amaro. Ma or che io son la favella di ognuno, che farò io? dove mi volgerò io? in che modo restrignerò io questa tarantola? chiederò io aiuto dalla Sobrietà, che so pur quanto ella mi è nimica, e come per la costui lascivia io l’ho offesa infinite volte? Infine egli mi bisogna sanza fallo alcuno esser con questa villana donna, la quale è sì secca e sì vincida, che io ne triemo: nientedimanco io non posso dispregiare il sollazzo d’una tanta vendetta; e però me la conviene chiamare, ancorchè io non voglia: niun’altra è al mondo che meglio possa gastigar questo cianciatore, sfondargli la faretra, spuntargli le saette, spezzargli l’arco, spegnerli le faci; anzi il corpo suo con aspri rimedj ristrignerli com’ella vuole: allora mi parrà essere in parte soddisfatta di cotante ingiurie, quando io gli avrò tosate quelle chiome, le quali io ho tante volte con lacci d’oro con queste stesse mani ristrette e annodate; e quando io gli averò tarpate quelle penne, che così spesso ristrignendomele in seno, io d’ambrosia ho allagate. E avendo dette queste parole, tutta infuriata, tutta tinta, tutta in collora se n’usci fuori. Allora Cerere e Giunone accompagnandosi con lei, veggendola così conturbata, la presero a domandare qual fusse la cagione, che con sì brutto piglio ella adombrasse la venustà de’ suoi occhi scintillanti. Ed ella: A tempo veramente venite a far violenza al mio ardente petto, per volermi mitigare il giusto sdegno: deh perchè non piuttosto con tutte le vostre forze mi ritrovate voi quella volatile e fuggitiva Psiche? io so ben che egli non vi è nascoso la pubblica favola della casa mia, e l’egregie opere del mio.... anzi nol voglio chiamar più il mio figliuolo. Allora elle, disiderando spegnere in parte cotanta ira, così le dissero: E in che cosa, dicci, padrona nostra, ha fallato Amore, che con ostinato animo tu ti opponi a’ suoi piaceri e desiderj, per rovinar la sua innamorata? per che cagione gli abbiamo noi attribuire a peccato lo aver con suo diletto risguardato una bella giovinetta? Or non sai tu che egli è maschio, e che egli è giovane? se’ ti tu già dimenticata degli anni suoi? e perchè egli ne porti così destra la sua persona, nè barba copre le sue tenere guance, hatti egli però a parere sempre un fanciullo? Tu gli se’ madre tu, e se’ donna astuta e sagace: e spierai tu dunque sempre mai i sollazzi del tuo figliuolo, e in lui dannerai la lascivia? in lui riprenderai gli amori e l’arti tue, e biasimerai le tue delizie in così bel fanciullo? Chi dunque degl’Iddii, chi degli uomini ti potrà oggimai più sofferire? la quale vai per ogni canto i tuoi desiderj seminando, e or non vuoi che in casa tua amino gli Amori, e serri la pubblica bottega de’ presenti delle donne. In questa guisa prestavano il lor patrocinio le due Iddee, per tema delle sue saette, a Cupidine, ancorchè e’ fusse assente. Ma Venere veggendo prendersi altrui in giuoco le ingiurie sue, posciach’elle fur partite, sdegnata più che mai, con velocissimi passi di nuovo se ne prese la via verso l’Oceano. In questo mezzo Psiche, per varie parti del mondo il dì e la notte discorrendo, con ogni maggior diligenza ch’ella poteva, andava il suo marito cercando; e pensava intra sè che, ancorchè fusse con lei adirato, ch’egli non fora gran fatto, se non colle matrimoniali carezze, almeno con preghi e uficj servili, renderselo benivolo e proprio. E mentre che ella si stava in questo pensiero, le venne veduto sulla cima d’uno alto monte un tempio; e però disse da sè: e perchè non potrebbe egli essere il mio Signore là entro? E così dicendo, con gran prestezza dirizzò lassù i suoi debili passi, a’ quali ne prestarono e la voglia e la speranza quelle forze, che loro avea tolto il lungo viaggio. Avendo adunque salito quell’altura assai francamente, e accostandosi agli altari della sacrata casa, ella vide molte spighe di grano e assai d’orzo, altre in mazzi, infinite in arrendevoli ghirlande: videvi eziandio un gran numero di falci con tutti gli altri strumenti che si adoperano alla mietitura, ma tutti a caso giacevano distesi per terra, e come interviene, da mani di stanchi lavoratori e offesi dal soverchio caldo gittate così là dove ben lor veniva. Perchè Psiche, come colei che stimava che egli non fosse a proposito d’alcuno Iddio dispregiar la religione, ma da cercar di guadagnarsi di tutti loro la benivola misericordia; fattasi da un canto, ogni cosa compose per ordine, e rimise al luogo suo. E mentre ch’ella assai diligentemente usava il pietoso ufficio, l’alma Cerere sopraggiuntala in un tratto, gridò forte: Ahi poverella Psiche, e degna di compassione, Venere tutta infuriata ti cerca per mare e per terra con ogni sollecitudine, nè altro bramando che il tuo ultimo esterminio, con tutte le forze della sua Deità va chiedendo la sua vendetta; e tu, badando a rassettare le cose mie, pensi ad ogni altra cosa che alla tua salute. Allora Psiche gittatasele innanzi inginocchione, bagnando colle sue copiose lagrime i santi piedi, e co’ suoi capelli spazzando la terra, con umil prece e pietose parole le dimandava perdono, dicendo: Io ti priego per cotesta tua frugifera destra, per le allegre cerimonie delle biade, per li taciti misterj de’ tuoi tabernacoli, per gl’impennati carri de’ tuoi sergenti dragoni, per li solchi delle siciliane zolle, per lo carro rapace e terra tenace, per li descendimenti delle buie nozze di Proserpina, per gli saglimenti de’ luminosi ritrovamenti della tua figliuola, e per le altre cose le quali la sagrestia dell’Attica Eleusi con sacrato silenzio ne tiene ascose; soccorri alla passionata anima della tua supplice Psiche, e consentimi, che io mi asconda in quella bica di quelle spighe almen tanti giorni, che le mie forze debilitate per la lunga fatica ritornino nel suo valore, la mercè di questa piccola quiete. E Cerere: Le tue lagrime mi commuovono e le tue preci, e bramo di porgerti aiuto; ma egli mi è tolto il potere, perciocchè io non mi voglio perder la grazia di Venere: imperocchè, oltrechè ella è una donna dabbene, ed è mia nipote, io tengo con lei una strettissima amicizia. Partiti adunque senza tardanza alcuna di questo tempio, e pensa ch’e’ sia per lo tuo migliore, che tu non sia stata da me nè ritenuta nè custodita. Scacciata adunque Psiche da Cerere fuor d’ogni sua credenza, e affannata per doppio dolore, diede la volta addietro: nè era andata in là molti passi, ch’e’ le venne veduto entro ad un boschetto non molto folto un altro tempio con grandissima arte lavorato; nè volendo lasciare alcuna via, benchè dubbia, che le mostrasse migliore speranza, anzi avendo diliberato impetrar perdono da tutti gl’Iddii, si approssimò alle sacrate porte, le quali, insieme con alcuni arbori che erano all’intorno, tutte di bellissimi doni ripiene si dimostravano, fra i quali erano moltissime vesti; e con lettere d’oro, delle quali elle eran circondate, insieme colla grazia ricevuta manifestavano il nome di quella Iddea. Allora Psiche inginocchiatasi innanzi all’altare, e abbracciatolo con ambe le mani, posciachè si ebbe rasciutte le lagrime, così mosse le preci sue: O sorella e mogliera del gran Tonante, se ora ti ritrovi ne’ vetusti templi di quella isola, la quale del tuo querulo parto, e de’ tuoi primi pianti, e del primiero latte si tien sì cara; o pur frequenti le beate sedi della gran Cartagine, la quale ti adora in forma d’una vergine ascendente al cielo, la mercè del forte lione; ovvero lungo la riva del fiume Inaco, il quale già ti predica moglie del Rettor del cielo e Reina delle altre Iddee, custodisci le inclite mura de’ tuoi cari Argivi; la quale, Zigia chiamandoti, onora tutto l’Occidente, e l’Oriente, appellando Lucina, t’invoca nel tempo del partorire; porgi aiuto, o Giunone, agli estremi miei danni, e libera oggimai la stanca ancilla tua dalla tema dello imminente pericolo. E per quanto io ho più fiate inteso, tu suoli pure spontaneamente sovvenire alle pregnanti, e soccorrere coloro a cui fa mestiero dello aiuto altrui. Supplicando Psiche in questa maniera, Giunone con quella sua augusta dignità, fattasele incontro, le disse: Come vorre’ io, la mia Psiche, per lo sacrato vinculo della fede accomodare il mio favore alli tuoi prieghi! ma contro alla volontà di Venere mia nuora, la quale io ho sempre amata come figliuola, egli non mi sarebbe lecito sanza mia gran vergogna porgerti soccorso veruno: ed inoltre le leggi, alle quali io non posso nè debbo far contro, me lo proibiscono; le quali vietano contro alla voglia de’ padroni il poter raccettare gli altrui fuggitivi schiavi. Impaurita adunque Psiche per la seconda ripulsa, nè dandole più il cuore di ricercare il volatile suo marito, perduta ogni speranza, non sappiendo più altro che farsi, prese fra sè stessa questo consiglio, e disse: Che altro rimedio si può egli ora mai cercare alle mie disgrazie, alle quali le Iddee medesime, eziandio volendo, non hanno avuto baldanza di porgere aiuto? Come scamperò io i miei piedi da’ tesi lacci? in che casa, in che tenebre ascondendomi, fuggirò io gl’inevitabili occhi di Citerea? Che non prendi adunque un virile animo, e renunzii gagliardamente ad ogni vana particella di speranza che ti restasse? Rappresentati volontariamente innanzi alla tua padrona, e con una lunga umiltà mitiga i crudeli impeti dell’ira sua. E che sai tu, se colui che tu hai cercato tanto tempo, tu lo trovassi in casa della madre? Fermatasi adunque in questo proposito, e preparata alla dubbia servitù, anzi al manifesto pericolo, andava seco stessa pensando il principio delle future preghiere. E Venere, avendo in questo mezzo rinunziato ad ogni occasione di ricercarla in terra, se n’era andata in cielo, e avea comandato che le fusse fatto un carro, il quale Vulcano con gran diligenzia condotto, anzi ch’ella gli facesse conoscere le dolcezze de’ suoi abbracciamenti, ne le fece un presente. Era inarcato il bel carro in quella guisa che è la Luna, allora quando il fratello, non le potendo per lo componimento della terra porgere tutto il suo splendore, la fa cornuta parere; e il forbito oro, che in ciaschedun corno veniva diminuendo, lo faceva col suo danno parere assai più bello: e delle molte colombe che intorno alla di lei camera dimoravano, quattro candidissime, con allegri passi girando il dipinto collo, sottentrarono al gemmato giogo, e ricevuta la padrona lietamente, spiegarono le ale loro, e accompagnando il nuovo carro con uno stridulo canto, andavano scherzando le lascive passere e altri infiniti uccelli; e co’ loro dolci accenti facevano risonar le valli, e soavemente spiegando le lor voci, annunziavano lo avvenimento di Citerea. Fuggivansi le nugole, aprivasi il cielo alla figliuola, e il purificato aere con allegrezza riceveva la bella Iddea: nè temeva la musica famiglia dell’alma Venere il riscontro delle rapaci aquile o degli affamati sparvieri. Andatasene adunque in questa guisa alla casa del gran Giove, con assai arroganti parole, domandato di Mercurio, gli disse, che seco se ne venisse; perciocchè facendole bisogno di mettere un certo bando, ella aveva mestier dell’opera sua: e così tutta lieta insieme con Mercurio ritornandosene, ragionando seco per la via, gli disse queste parole: Tu sai, il mio fratello, che la tua sorella Venere non ha mai fatto cosa alcuna sanza la presenza tua; e anche so che egli non t’è nascosto quanto egli è ch’io non ho potuto ritrovare una mia ancilla; e però io voglio che colla tua tromba tu metta un bando per tutto il mondo, e prometta a quegli che me la insegnassero un buon beveraggio: fa adunque che con ogni prestezza tu eseguisca il mio comandamento. E a cagione che se alcuno fraudolentemente la tenesse celata, e’ non abbia cagione di difendersi, col dire: io non la conosceva: egli sarà ben che tu manifesti gl’indizj, co’ quali ognuno la possa chiaramente conoscere. E dette queste parole, gli porse una scritta, dove si conteneva il nome di Psiche e gli altri suoi contrassegni: e avendo eseguite tutte queste cose, torse il carro suo inverso casa. Nè lasciò di far Mercurio con ogni diligenzia l’uficio impostogli. E discorrendo per le bocche di tutti i popoli, così esponeva la imbasciata della sorella. Chi avesse o sapesse dove fusse una fuggitiva figlia d’un re, chiamata Psiche, ancilla di Venere, sia contento di andarsene dietro all’oratorio Murzio, e quivi la faccia palese a Mercurio banditore: e Venere per premio del suo indizio è contenta donargli sette dolci baci, e uno, mercè della sua lingua, dolcissimo di tutti gli altri. Avendo bandito in questa guisa, il disiderio di tanto premio aveva acceso l’animo di tutti i mortali a ricercar la fuggitiva donna. Della qual cosa Psiche accorgendosi, rimosso da sè ogni indugio del già preso partito, con presti passi se ne andò verso la casa della sua Signora. Nè fu prima arrivata alla porta, che una delle di lei sergenti, chiamata per nome la Consuetudine, fattasele incontro, con grida quanto mai della gola l’usciva, disse: Tu ti se’ pure accorta finalmente, iniquitosa schiava, d’aver padrona: fingi tu di non sapere, temeraria e pessima di tutte l’altre, quanti disagi, quanti affanni abbiamo sopportati per ritrovarti? ma ringraziato sia Iddio, che tu se’ primieramente capitata alle mie mani, che ben ti so dire, che tu ti se’ già accostata al cancello di quel luogo dove tu pagherai la pena della tua contumacia. E mentre diceva queste parole, messole le audaci mani entro a’ biondi capelli, senza ch’ella facesse alcuna resistenza, la strascinò dinanzi alla padrona. La quale, come prima la vide, con un licenzioso riso, e come soglion far quegli che sono adirati davvero, scotendo il capo, e stuzzicandosi l’orecchio destro, le disse: Tu ti se’ pur degnata alla fine di venire a far motto alla suocera tua! se tu non se’ già venuta per vedere il tuo gentil marito, il quale per li tuoi buon portamenti si potrebbe bello e morire: ma sta di buona voglia, ch’io ti riceverò come è convenevole una buona nuora. E dove sono la Sollecitudine e la Tristizia, mie serve? E fattele chiamare, senza altro dire, la diede loro a tormentare. Le ubbidienti ancille, posciach’ell’ebbero rigidamente fatto il volere della padrona, tutta afflitta e tormentata la presentaron di nuovo innanzi al cospetto di Venere. La quale un’altra volta alzando le risa, disse: Ecco costei che col ruffianesimo del gravido ventre ci crede muovere a compassione. Beata a me, posciachè egli mi farà avola di così chiara progenie! felice veramente, poichè nel fior della mia età io sono chiamata suocera, e un figliuol d’una vil fanticella si sentirà nominare nipote di Citerea! Ma io son ben pazza a chiamarlo figliuolo: le nozze diseguali fatte in villa, senza testimonj, senza il consentimento del padre, non si posson chiamar legittime; e però sarà bastardo questo che nascerà, se noi avremo tanta pazienza, che noi te lo lasciamo condurre al tempo. E il dir di queste parole, e lo avventarsele addosso, stracciarle la veste, e scompigliarle i capelli, e sconquassarle il capo, fu tutt’uno. E posciachè per una volta ella le ne ebbe dato un carpiccio de’ buoni, preso del grano, dell’orzo, del miglio, del seme di papavari, de’ ceci, delle lenti, e delle fave, e fatto un mescuglio d’ogni cosa, le disse: Tu mi par così brutta schiavolina, che io non so pensare in che altro modo tu ti possa guadagnar la grazia di alcuno amadore, se non con una diligente servitù: e io ne voglio veder la prova. Sceglieraimi adunque questi semi di queste biade, che sono in questo monte, e porrai ognun da per sè; e innanzi che sia sera fa che tu me l’assegni in tanti monti, quanti ci son semi differenziati. E dette queste parole, essendo già venuta l’ora, se ne andò a cenare. Non dava il cuore alla poverella Psiche di poter fare l’una delle mille parti del crudele comandamento; e però senza mettersi a sceglierne granello, si stava come una cosa insensata: laonde la picciola contadinella, la diligente formica, mossa a compassione della incomportabile fatica della mogliera di tanto Iddio, e dispiacendole insino al cuore la crudeltà della suocera, senza curar disagio, discorrendo or qui or qua, ragunò tutte le squadre delle formiche di quel paese, e disse loro: Abbiate compassione, o snelli allievi della onnipotente Terra, abbiate misericordia della moglie di Amore; soccorrete con ogni prestezza al grandissimo pericolo della vaga pulzella. Corrono queste, vengono quelle, e come l’onda, l’un formicaio seguitava l’altro. Le quali giunte al desiderato monte, con ogni maggior prestezza attesero a trascegliere quei semi l’uno dall’altro; e compite che ell’ebbono la bisogna, tutte alle lor buche prestamente se ne ritornarono. Nè vi andò guari, dopo la partita loro, che fu là sul ritorno della oscurissima notte, avendo Venere già cenato, tutta di perle incoronata e di vermiglie rose, e riempiendo ogni cosa di odor soavissimo di finissimi e odoriferi profumi, se ne ritornò da Psiche, e veduta la incredibile esecuzione della maravigliosa opera, disse: Non tua faccenda è questa, pessima e scellerata e ingorda femmina, nè delle tue proprie mani, ma di colui, al quale con tua mala ventura se’ tanto piaciuta: e senza dirle altro, prestamente gli portò un pezzetto di pane, e se ne andò a dormire. Stava Cupido in questo mezzo tutto solo riserrato entro alle più segrete parti della casa in una cameretta guardata con grandissima diligenzia, parte perchè egli con qualche lussurioso disordine non fusse cagione che la ferita inciprignisse, e parte per torgli il modo di ritrovarsi col suo disiderio; e così sotto ad uno medesimo tetto sequestrati e disgiunti i due ferventissimi amanti si passarono quella orrenda notte. E poscia l’Aurora col suo rosato carro ne apportava la novella del vegnente giorno, Venere già levata in piedi, e avendo fatto chiamare a sè Psiche, le disse queste parole: Vedi tu là quel fronzuto bosco, il quale è circondato dalle profondissime ripe di quel corrente fiume, i cui più bassi pelaghi risguardano quel fonte vicino? quivi alcune risplendenti pecorelle a loro diletto si vanno liberamente godendo quella pastura: io voglio che della preziosa lana delle auree chiome tu me ne arrechi un fiocco, con quel miglior modo che tu potrai. Andando Psiche, senza aspettare altro, più che volentieri, non già per adempire il rigido comandamento, ma per dar fine, col gittarsi giù per un di que’ balzi di quel fiume, alle sue fatiche; come fu vicina al fiume, la nutrice della soave musica, una verde canna, da un dolce mormorio d’una lieve aura divinamente inspirata, confortandola, così le disse: Psiche, da tante angosce tribolata, non macchiare le mie serene acque colla tua miserrima morte; nè muovere eziandio gli stanchi passi contro a quelle formidabili pecore di quel bosco, insino a tanto che l’acqua dell’oceano non avrà cominciato ad intepidire i raggi del cadente sole: perciocchè allor che egli ugualmente distando dalle sue onde con maggior forza ne fiere, elle sono usate uscir fuori, cacciate da una rabbiosa furia, e con acute corna e dura fronte e avvelenati morsi incrudelire in danno de’ mortali; ma posciachè il sole sarà vicino al suo albergo (essendo stata nascosta sotto quel platano, che tu vedi là, il quale meco insieme bee l’acqua di questo fiume), perciocchè le bestie, per la serenità dell’aura di questo fiume rinfrescate alquanto, avranno un poco addolcito il rigido animo, tu te ne potrai uscir fuori: e ricercando tra le frondi del bosco ivi vicino, ritroverai alcun bioccolo dell’aurea lana, i quali ad ogni passo rimangono attaccati su per li sterpi e per li pruni. E avendo insegnato in questa guisa la gentil canna alla povera Psiche la sua salute, ed ella avendo con gran cura osservato le sue parole, nè mancando di far quanto vi si conteneva, con agevol rapina empiutosi il grembo di quella lana, a Venere ne la portò. Non potè perciò il pericolo della seconda fatica acquistar fede alla seconda testimonianza, anzi con turbato ciglio ridendo, tutta veleno le disse: Ancorchè adesso egli non mi sia nascosto lo adulterino autore di questa impresa, contuttociò io voglio fare al presente certissima pruova se tu se’ di così forte animo e di tanta prudenza, quanto le altrui forze ti fanno mostrare. Vedi tu là in sulla sommità di quello altissimo monte, cinto di grandissime ripe, il negro fonte dal quale piovono quelle oscurissime acque, le quali rinchiuse nel profondo della valle che gli è vicina, corrono per la Stigia palude, e nutrono il picciol fiume Cocito? Prendi questa brocca, e portalami piena dell’onde interiori di quella fonte. E così dicendo, le diede un vaso lavorato a tornio, che era di finissimo cristallo; e minacciandola di più aspre fatiche, s’ella non la portava, le diede commiato. Ed ella certa d’avere a morir quivi, ancorchè non volesse, affrettando i passi per cotal cagione, se ne salse sull’estremità del mostrato monte: e come prima ella fu sul giogo, ella cognobbe le impossibili difficultà del mortale comandamento: imperciocchè un sasso altissimo fuor di misura, lubrico e repente sì ch’egli era impossibile salirvi col pensiero, non che co’ piedi, spargeva del mezzo delle sue fauci le acque dello spaventevole fonte, le quali per alcuni piccioli pertugi cadendo a basso, per certi tortugli canaletti, e d’ogni intorno ricoperti, ascostamente se ne discendevano nella propinqua valle: e dal destro e dal sinistro lato in certe grotte erano alcuni dragoni, condannati per sempre a star quivi senza mai dormire, per averne la cura: e fuor di loro le parlanti acque da lor medesime si facevano la guardia: imperocchè: «E partiti: e che cerchi? vedi quello che tu fai: guardati, e fuggiti: e tu capiterai male» si sentiva dir lor continuamente. Divenuta adunque Psiche, per la insuperabil difficultà, fredda come una pietra, e benchè fusse quivi col corpo, volata co’ sensi in altra parte, essendo ricoperta al tutto dalla inestimabile macchina del manifesto periglio, era eziandio privata delle lagrime, ultimo sollazzo delle miserie de’ mortali. Nè fu ascosta la calamità della innocente anima alli giusti occhi della divina providenzia: imperocchè il regale uccello del gran Giove, la rapace aquila, spiegate ambedue l’ali, se ne volò da lei; e ricordevole dell’antico uficio, quando, la mercè di Cupido, ella avea portato a Giove il frigio coppiere, e onorando la sua deità nelle fatiche della moglie, disideroso di porgerle rimedio opportuno, le prese a dire in questa forma: O semplice donzella, e ignorante di quei segreti, hai tu speranza di potere involare o toccare almeno pure una gocciola di questo non men tremendo che santissimo fonte? Or non imparasti tu insieme col parlare, che le onde stigie fanno paura agl’Iddii, e a Giove stesso? e che così come voi giurate per la lor deità, egli giurano per la maestà di queste? E così dicendo, fattasi porgere la brocca, e tostamente presala ed empiutola, e battute le maestre penne fra le mascelle de’ crudeli denti e fra il brandire delle inferzate lingue de’ dragoni, e dirizzando il volar suo e da questa e da quell’altra parte, perciocchè elle minacciavano di rivoler le acque, che così le promettevan lasciarla partire senza oltraggio alcuno, ella finse, che tutto quello ch’ella facea era per comandamento di Venere, e che a lei le portava: laonde assai le fu agevole il poternela portare. Avendo Psiche fuor d’ogni sua credenza ricevuta la piena brocca, tutta allegra, con presti passi da Venere se ne ritornò. Nè manco potè per questo placare il crudel ciglio della adirata Iddea; la quale ridendo, tutta stizza, e minacciandola di maggior male, così le parlò: Oramai, se io ti ho a dire il vero, io credo che tu sia una valente maga, posciachè così gagliardamente tu hai obbedito a questi miei comandamenti; e però voglio io, la mia luce, che tu mi faccia ancor questo altro servigio: prendi questo bossolo, e vattene immediate infino all’inferno; e arrivata che tu sarai alla casa del crudel Plutone, dallo a Proserpina; e di’ ch’io la prego, che sia contenta di mandarmi tanto della sua bellezza, che sia bastevole per un dì; perciocchè mentre ch’io sono stata intenta alla cura del mio infermo figliuolo, io n’ho perduta quanta io n’avea: e fa che tu sii di buona tornata, perciocch’egli mi è necessario fra picciol tempo ritrovarmi nel teatro cogli altri Iddii, e non voglio parer così sozza. Allora parve bene a Psiche, ch’e’ fusse venuto l’ultimo trabocco delle sue rovine, e che a viso scoperto ell’era mandata alla beccheria; nè avrebbe creduto altrimenti, veggendosi sforzare a suoi piedi andare infino nel profondo dell’inferno. Nè volendo perdere più tempo, messasi in via, se ne andò da una altissima torre, per volersi di quivi gittare in piana terra; chè niun’altra via sapeva la meschinella meglio di quella per condursi all’inferno. Ma come ella vi fu presso, la detta torre mandò fuori per una delle finestre queste parole: E per che cagione, bella giovane, ti vuoi tu tor del mondo con sì fatta caduta? perchè ti arrendi tu in questa ultima fatica così inconsideratamente? e se lo spirito tuo si separerà per questa guisa dal corpo, tu andrai bene al profondo del baratro dello inferno; ma il tornar poi non sarà a tua posta, chè di quindi non si esce per modo alcuno. Ascolta adunque le mie parole. Non molto lungi da qui è una città chiamata Lacedemone, nobilissima di tutte le città dell’Acaia; vicino alla quale in luogo assai remoto è un promontorio, che quelli del paese appellano Tenaro. Quivi entro degli spiracoli dello inferno, e per apertissime porte vi si mostra lo scuro cammino, per le cui soglie entrando, potrai agevolmente arrivare alla casa di Plutone. Ma egli non si debbe andare per quelle scure tenebre così a man vote, perciocchè in ciascuna delle mani egli ti fa mestiero portare una schiacciata, ed entro alla bocca due quattrini; e quando tu avrai varcata buona parte della mortifera strada, tu riscontrerai uno asino con una soma di legne, con un vetturale carico come lui; il quale ti pregherà che tu gli ponga alcune fascine della cadente soma; ma tu facendo le vista di non lo udire, camminerai a tuo viaggio: nè vi andrà guari dopo questo, che tu arriverai al morto fiume, al cui passo è preposto il vecchio Carone, il quale subito ti chiederà il passaggio; imperocchè egli con picciola barchetta varca tutti i passeggieri: sicchè, come tu puoi comprendere, l’avarizia vive nel regno de’ morti, nè Carone nè quel grande Iddio fanno cosa alcuna senza premio: e morendo un poverello, gli fa mestiero di cercare danari per pagar questo passo; e se per disgrazia egli non avesse così in pronto la moneta, nessuno lo lascerebbe finir di morire. Adunque degli due quattrini che tu porterai, dara’ ne uno per tuo passaggio allo squallido vecchio; ma in questa guisa: cioè, che egli di sua mano lo pigli della bocca tua. E mentre che tu passerai per lo pigro fiume, un morto vecchio e puzzolente, notando per quelle onde, alzando ambe le mani, ti pregherà che tu sia contenta prenderlo entro alla barchetta; ma non ti lasciar muovere alla non lecita pietade. Nè avrai gran fatto camminato, posciachè sarai smontata del picciol legno, che tu troverai certe vecchie tessitrici, le quali ti pregheranno che tu sia contenta di aiutar loro un poco a tessere una tela ch’ell’hanno in sul telaio; e questo manco farai, perciocch’egli non ti è permesso toccar quella tela per cagione alcuna. E tutte queste trappole e questi inganni ti avverranno, la mercè di Venere, a cagione che tu ti lassi trar di mano una di quelle stiacciate: nè pensare che così fatta perdita sia da non essere stimata molto; perciocchè perdutone una, e’ te ne seguirebbe la perdita di questa luce: e la cagione è, che egli sta sempre innanzi alla soglia del palazzo di Proserpina un fortissimo cane a far la guardia alle vacue stanze del gran Plutone; il quale con rabbiose zanne, ancorchè indarno, cerca mettere paura a quegli uomini, che essendo morti non sono capaci d’altro male. Il cui furore affrenando con una di quelle cofacce, egli agevolmente ti lasserà passare: e così te ne verrai al palazzo di Proserpina. Ed entrata che tu sarai, ella con lieta fronte ricevendoti, ti pregherà che tu ti assida sopra d’una ricca sedia, e prenda delle sue realissime vivande: ma tu postati a seder per terra, chiederai del pan negro; il quale come più ratto avrai mangiato, esporrai la cagion della tua venuta. E preso quello ch’ella ti darà, subitamente ritornerai: e placando la rabbia dello affamato cane con quell’altra schiacciata, e dando all’avaro barcaiuolo quell’altro quattrino, e passato ch’avrai il fiume, per la medesima strada te ne ritornerai al ballo di queste celesti stelle. Ma una cosa soprattutto ti bisogna avvertire: che egli non ti venga voglia nè di aprire nè di guardar quel bossolo, che tu porti, nè d’esser curiosa di scoprire l’ascoso tesoro della divina beltade. - E in questa guisa la misericordiosa torre diede fine al propizio uficio della sua divinazione. Non messe tempo in mezzo Psiche, avendo uditi i santi ammonimenti; ma andatasene a Tenaro prestamente, e provvisti i quattrini e le schiacciate, se n’entrò nella sdegnata strada: e fattasi beffe del debile vetturale, e data la sua mercede al barcaiuolo, e divenuta sorda alle raccomandazioni del notante vecchione, e finto di non udir le ingannevoli preci delle vecchie tessitrici, e mitigata con una delle schiacciate la rabbia del crudel cane, se ne passò in casa di Proserpina: dove medesimamente disprezzando l’offerta della delicata seggiola, e rifiutato i soavi cibi, postasele avanti umilmente, e d’un solo pane contentasi, espose la imbasciata di Citerea. Perchè Proserpina, senza indugio empiuto segretamente quel bossolo, e dandogliene in mano, le diede commiato. Ed ella dando la volta addietro, sedato il canino abbaiare come l’altra volta, e dato al nocchiere il restante quattrino, più ratta che mai se ne ritornò al paese de’ viventi. E ritrovata e adorata questa chiara luce, ancorchè volentieri ella desse fine all’uficio impostole, e’ l’entrò nella mente una temeraria curiosità, e disse fra sè: vedi s’io son pazza, che essendo portatrice della divina bellezza, io non me ne so prendere una particella, colla quale io possa poscia maggiormente piacere a quel mio bellissimo amatore. Nè prima ebbe finite queste parole, che ella aperse quel bossolo, entro al quale nè bellezza v’era nè cosa alcuna, ma un sonno infernale e stigio veramente; il quale, subito levato il coperchio, se n’uscì fuori; e ingombratole gli occhi e tutte le altre membra d’una foltissima nebbia, sicchè ella non sentiva niente, la fece cadere in terra come morta. Ma Cupido, al quale già la margine dell’arsura era assai ben rassodata, sicch’e’ si poteva dire quasi guarito, non potendo più sopportar l’assenzia della sua bella Psiche, scapolato per una strettissima finestra di quella camera dove egli era ristretto, rifattesi per la lunga quiete le penne assai migliori, con maggior velocità che l’usato volando, se ne venne laddove ella dormiva; e levatole il sonno daddosso, e con diligenza rinserratolo in quel vasetto medesimo, puntola con una picciola e non nocevole puntura, la risvegliò, e poscia disse: Ecco, che per la tua medesima curiosità tu eri perita un’altra volta, ma finisci nondimeno per ora strenuamente il precetto della mia madre, e delle altre cose a me lascia il pensiero, che io l’eseguirò. E avendole dette queste parole, spiegate le penne, via se ne volò. E Psiche, senza indugio andatasene da Venere, le portò lo addomandato presente. In questo mezzo l’agile amatore acceso d’uno incomportabile desiderio della sua donna, e temendo grandemente della repentina severità della madre, fece pensiero di aprir la borsa delle sue frode; e con preste ali penetrato la sommità del cielo, esposta la sua causa al gran Tonante, supplichevolmente si gli raccomandò. Allora Giove prese la sua picciola e bella bocca, e accostatasela alla sua, e baciatola più volte, gli disse: Avvenga, il mio figliuolo e padron mio, che tu non mi abbia renduto mai quell’onore che mi è stato concesso e decreto da tutti gli altri altissimi Iddii, anzi abbi più fiate questo petto mio, entro al quale si dispongono le leggi degli elementi e gli scambiamenti delle stelle, e con più e più colpi ferito, e assai sovente macchiato col fango della libidine de’ terrestri amori, e contro alle disposizioni delle leggi e della giustizia, e massimamente, e fuor di quel che vuole la pubblica onestà e disciplina, sminuito la mia fama co’ brutti adulterj e la mia estimazione, in serpente, in fuoco, in fiere, in uccelli, e in altri simili animali il mio volto sozzamente trasformando, nientedimeno, perciocchè non posso mancar della mia natia modestia, e poichè tu se’ cresciuto tra queste mani, io farò il tuo volere, purchè tu ti ricordi che egli si vuole aver l’occhio agli emuli tuoi; e inoltre, che se adesso alcuna pulzella è giù nel mondo vaga e gentile, che tu mi se’ obbligato coll’amor suo a ricompensar il presente beneficio. E avendo finito queste parole, fattosi chiamar Mercurio, gli comandò che allora e’ bandisse il consiglio di tutti gl’Iddii, con condizione, che se alcuno mancasse, egli s’intendesse esser caduto in pena di diecimila ducati. La cui tema fu cagione che tutti con maravigliosa prestezza si presentassero nel teatro: dove sedendo Giove sopra ad una eminente sede, imposto silenzio ad ognuno, fece questa orazione. Iddii descritti nella matricola delle Muse, questo giovane, il quale io mi sono allevato con queste mani, come io so che tutti voi vi ricordate, io ho giudicato che egli sia oramai bene con qualche freno ritenere i caldi impeti della sua gioventù, ch’e’ non trascorrino più oltre di quello che egli hanno fatto. Assai è egli per li molti adulterj e per altre corruttele infamato insino ad oggi; e però egli è da tor via ogni occasione, e raffrenar la puerile lussuria co’ fortissimi lacci del matrimonio. Egli medesimo si ha eletto una fanciulla, ed halla privata della sua virginità: tengasela, posseggasela; ed abbracciando Psiche, sempre si goda i suoi amori. E voltosi verso Venere, seguitando le disse: Nè ti contristar per questo, la mia figliuola, nè aver temenza della tua schiatta, nè del tuo stato, per lo mortal matrimonio; chè provvederò in modo che queste nozze a uguali divenute sieno, e secondo la disposizion delle leggi civili. E così dicendo comandò a Mercurio che ne menasse in cielo la bella Psiche, subito ch’ella fu giunta, datole a bere un bicchiere d’ambrosia: prendi, disse, o Psiche, che sia immortale, nè mai si sciolga Cupido da’ legami tuoi. E dato ordine alle nozze, ch’elle fussero magnifiche e grandi, in breve spazio fu preparato un realissimo convito. Sedevasi nel principal luogo della tavola il novello sposo, e in grembo aveva la sua bramata Psiche: accanto a lui era Giove colla sua Giunone: e poscia ordinatamente secondo le lor preminenze seguitavano gli altri Iddii di mano in mano. A Giove porgeva il nettare, che è il vino di quel del cielo, il coppier suo, quel rustico Ganimede; agli altri dava Bacco da bere: Vulcano fece la cucina: le Ore e colle rose e con altri fiori fioriron la casa: le Grazie la profumarono: le Muse ferono doppia musica: Apollo cantò in sulla citara: Venere al suon d’un soave conserto dolcemente ballò. Il consorte era in questa guisa: le Muse cantavano, e un Satiro sonava i flauti, e Panisco una sampogna. E in questa guisa arrivò Psiche nelle mani d’Amore. La quale, posciachè egli fu venuto il tempo del partorire, fece quella piacevol figliuola, che noi altri chiamiamo la Voluttà. (Traduz. di Agnuolo Firenzuola, XVI secolo)

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