domenica 8 settembre 2019
THE NEST, IL NIDO: IL REVIVAL GOTICO ITALIANO
In questi ultimi anni sono uscite opere italiane che stanno facendo ben sperare sulla rinascita del cinema italiano.
Film come lo chiamavano Jeeg Robot e Lazzaro felice sono state delle luci improvvise nel grigiore monotono del nostro cinema; altra opera che fa ben sperare è questo lungometraggio di Ferdinando De Feo, il primo che realizza da solo, che reinterpreta il genere gotico: The Nest-Il Nido.
Uscito in un periodo non proprio propizio per i film in sala, il 15 di agosto, si è rivelato un’opera prima interessante e per niente scontata.
La storia è quella di un bambino e una madre che vivono in una tenuta isolata dal mondo, insieme a poche altre persone.
Non sappiamo quale sia la minaccia che li tiene relegati lì, sta di fatto che il ragazzino, apparentemente paraplegico, non può lasciare la proprietà.
Si presentano però due problemi: Samuel, il bambino, sta entrando nella fase puberale in cui la ribellione e la voglia di libertà si fanno pressanti, inoltre giunge Denise, una ragazzina poco più grande di lui e con lei il mondo esterno che la madre era fino ad allora riuscita a tenere fuori dalla proprietà.
Tale contrapposizione viene rappresentata dalla musica: quella classica che Samuel ha imparato a suonare al pianoforte e quella contemporanea, scoperta clandestinamente attraverso il lettore della ragazza, in particolare il brano Where Is My Mind dei Pixies.
Denise rappresenta la soglia verso l’età adulta, la scoperta della sessualità e dell’autonomia, per questo inizialmente la madre la percepisce come una minaccia, salvo poi cercare di “addomesticarla” per renderla accettabile per la società da lei creata.
Ma non è così che la vuole Samuel, per questo deciderà di conquistare quella libertà che gli è stata negata.
A quale costo?
Il finale a sorpresa rivelerà gli aspetti contraddittori dell’autonomia e della ribellione, spiegando gran parte degli elementi lasciati in sospeso nel corso del film.
La recitazione è apprezzabile, magistrale la fotografia di Emanuele Pasquet che enfatizza le atmosfere gotiche della tenuta.
Emergono chiari i riferimenti a film come The Others di Amenàbar e The Village di Shyamalan, in alcune scene del film la fotografia ricorda il lavoro di Luciano Tovoli in Suspiria di Dario Argento.
Alcuni elementi della trama sono comunque rimasti in sospeso ed emergono qua e là delle contraddizioni, ma è comunque una buona opera prima che fa ben sperare per le prossime opere del regista.
RED KROKODIL: DISFACIMENTO DEL CORPO E NON SOLO...
Red Krokodil è un film di Domiziano Cristopharo del 2012, realizzato
con un budget risicatissimo (1000 euro), girato senza una vera troupe
e in un unico set.
Alla sua base
troviamo l’atmosfera claustrofobica e di marcescenza, girando
attorno alla recitazione di un unico attore, Brock Madson.
Il red krokodil è
una droga che dalla Russia si è diffusa in tutto il mondo
occidentale, nota per provocare lacerazioni ai tessuti di chi la
assume.
Il protagonista
infatti trascorre le sue giornate in un continuo trip da questa
sostanza, mentre il suo corpo sta lentamente marcendo.
Le luci sono fredde
e riflettono quell’atmosfera di disfacimento e lordume in cui
l’uomo trascina le sue giornate, non ci sono dialoghi, ma solo una
voce fuori campo che commenta le sue sensazioni.
Ma un altro tema si
innesta a quello della tossicodipendenza: l’uomo infatti vede dalla
propria finestra immagini della città di Chernobyl, simbolo della
distruzione che l’essere umano provoca non solo su se stesso, ma su
tutto ciò che lo circonda.
Un’opera quindi
sull’annientamento, sulla fascinazione per l’autodistruzione in
nome di piacere fugaci, che siano dei trip da droga, i soldi o il
potere.
Protagonista è il
corpo, sempre nudo e man mano più decadente, ma allo stesso tempo
desideroso di ritrovare un’innocenza perduta, che finisce per
accostare il protagonista a una sorta di Cristo contemporaneo in
cerca del martirio per purificarsi.
Un’opera dunque
originale nella sua essenzialità, cruda e commovente.
Non aspettatevi un
qualsiasi film horror, perché è nel dramma e nella sofferenza che
trova la sua motivazione.
Nel finale, che non
vi spoilero, torna l’accostamento a Chernobyl, aprendosi a diverse
interpretazioni che sicuramente vi faranno riflettere.
mercoledì 14 agosto 2019
MIDSOMMAR: L’ORRORE DELLA LUCE
Ammetto che non avevo reagito alla visione di Hereditary con lo
stesso entusiasmo della
maggioranza delle persone.
Non
equivocate: si vedeva che Ari Aster aveva del talento registico, ma
avevo notato alcune
ingenuità, che avevo attribuito alla poca
esperienza, per cui mi ero riservata ulteriori giudizi
dopo la
visione di una sua successiva opera.
Ora lo
posso dire senza problemi: Ari Aster è una delle promesse più
interessanti del
panorama registico.
Probabilmente
la sua opera prima era ancora legata a quelli che erano i suoi
riferimenti
cinematografici, che aveva cercato di riprodurre e
omaggiare, ma con Midsommar: Il
villaggio dei dannati è finalmente uscita fuori quella che è
la sua cifra stilistica, l’impronta
che lo rende diverso dalla
massa e porta il suo cinema nell'universo autoriale.
Anche
qui emergono alcuni riferimenti del cinema del passato, soprattutto The Wicker Man
di Robin Hardy, ma il tutto viene rielaborato in modo
del tutto originale e convincente.
Ciò
che emerge immediatamente, come già si era potuto osservare in
Hereditary, è il gusto
per la fotografia e l’inquadratura
artistica, caratteristiche insolite da trovare nell'horror
contemporaneo.
Interessante
è il ribaltamento della visione del perturbante legata al buio e
alle atmosfere
tetre: qui l’orrore si svolge sotto la piena luce
del sole di mezzanotte scandinavo, il bianco
abbagliante, la natura in fiore e l’idillio
diventano fonte di paura, attraverso squarci visivi
psichedelici.
La
storia sembra semplice: quattro ragazzi studenti di antropologia e la
fidanzata di uno di
loro, studentessa di psicologia, decidono di passare una vacanza studio in una sorta di
comune svedese, in cui è cresciuto uno di loro, per assistere alla festa di mezza estate.
loro, studentessa di psicologia, decidono di passare una vacanza studio in una sorta di
comune svedese, in cui è cresciuto uno di loro, per assistere alla festa di mezza estate.
Inizialmente
la ragazza, con alle spalle dei lutti di famiglia e una storia di
depressione,
sembra quasi isolata rispetto alla camerata maschile,
fatta eccezione per il giovane
proveniente da questa comunità, che
pare mostrarsi comprensivo verso il suo dolore.
Il
rapporto conflittuale maschile/femminile, già presente in
Hereditary, tende a
ripresentarsi anche qui, con conseguenze
imprevedibili.
Non è
una caso che tale combriccola, spiccatamente machista, sia destinata
a soccombere
quando entra in contatto con una comunità ancestrale,
pagana e fondamentalmente legata
al culto della Dea Madre.
In tale contesto sono le donne a reggere le fila: sono loro a
decidere con quali uomini unirsi,
quali salvare e quali condannare,
mentre gli studenti sono destinati a essere dei fantocci tra
le loro
mani, portati a intraprendere un percorso deciso per loro.
Inevitabilmente
si arriva, verso il finale, verso l’esplodere grottesco delle
emozioni, come
era già accaduto in Hereditary, lasciandomi alquanto
perplessa; ma in questo caso il tutto
assume un senso (e ripensandoci
allora la cosa era stata voluta anche nel film precedente).
Perché
si è capito che per Aster le emozioni esplodono senza filtri, in
questo caso diventano
motivo di partecipazione di una comunità che
vive il dolore di uno sulla propria pelle, che
permette alla parte
oscura di emergere prepotentemente, diventando occasione di
condivisione.
La
follia per Aster è una marea che travolge lo spettatore in pieno
viso, lasciandoti confuso e
impreparato a tale impatto, tracciando
quello che ormai potremmo identificare come suo
tratto stilistico.
Ma
ormai è chiaro che il suo cinema necessita dell’abbassamento delle
nostre difese
psicologiche per poterlo davvero comprendere.
giovedì 1 agosto 2019
NEOSURREALISMI, FASCISMI E DIRITTI D'AUTORE: Fare arte al tempo del populismo e dei social.
Stavo scorrendo come tutti i giorni la mia home di Facebook, quando m’imbatto in un gruppo in questo manifesto di Forza Nuova, postato dal gruppo Abolizione del suffragio universale, ovviamente accompagnato da parole d'indignazione.
Niente di sorprendente: la solita accozzaglia di luoghi comuni, populismo e omofobia, ma non è quello ad attirare la mia attenzione.
L’immagine utilizzata per il manifesto ha qualcosa di famigliare e, leggendone i commenti, scopro che qualcun altro l’ha riconosciuta: si tratta infatti di un’opera d’arte di Laurie Lipton, Love Bite.
Conoscendo l’artista dubito fortemente che sia stata utilizzata col suo consenso.
Laurie Lipton è una delle regina dell’arte neosurrealista macabra, con una forte denuncia verso le derive populiste e conservatrici della società, oltre che del progresso disumanizzante.
Qualcuno scrive sulla pagina di Forza Nuova di tale violazione, come risposta, invece di rimuovere l’immagine, l’utente viene bannato.
Io e altri utenti decidiamo di contattarla, conoscendo alcuni suoi amici chiedo loro di avvisarla.
Emerge che in realtà lei è a conoscenza di questo uso improprio delle sue opere, anzi lo avrebbe più volte notificato a Facebook.
Quello che più sorprende è che la risposta sarebbe stata praticamente “picche”.
Ora immaginate: io riconosco un mio lavoro, faccio una segnalazione per violazione dei diritti d’autore, ma per Facebook è tutto in regola.
Ora speriamo che l’artista possa fare una formale denuncia, anche perché l’idea che la propria opera possa essere anche appesa per i muri delle città, accostandola a ideologie totalmente opposte alle sue, è l’incubo di ogni artista.
Ma ciò che lascia più perplessi è che lo stesso social che si dedica a censurare un capezzolo in un’opera d’arte, permetta che si perpetui sulle sue pagine quello che effettivamente è un reato, cioè la violazione del copyright.
Proprio in Italia, una recente sentenza ha condannato Facebook a un risarcimento proprio per violazione del copyright, speriamo che non si tratti di un caso isolato.
Nel frattempo inviterei tutti a conoscere meglio le opere di questa nota artista statunitense, in modo da capire quanto sia lontana da certe posizioni, magari potreste cominciare proprio dal documentario che dall'opera citata prende il nome, LOVE BITE: Laurie Lipton And Her Disturbing Black & White Drawing.
Il manifesto di Forza Nuova |
Niente di sorprendente: la solita accozzaglia di luoghi comuni, populismo e omofobia, ma non è quello ad attirare la mia attenzione.
L’immagine utilizzata per il manifesto ha qualcosa di famigliare e, leggendone i commenti, scopro che qualcun altro l’ha riconosciuta: si tratta infatti di un’opera d’arte di Laurie Lipton, Love Bite.
Love Bite, Laurie Lipton |
Conoscendo l’artista dubito fortemente che sia stata utilizzata col suo consenso.
Laurie Lipton è una delle regina dell’arte neosurrealista macabra, con una forte denuncia verso le derive populiste e conservatrici della società, oltre che del progresso disumanizzante.
Laurie Lipton |
Qualcuno scrive sulla pagina di Forza Nuova di tale violazione, come risposta, invece di rimuovere l’immagine, l’utente viene bannato.
Io e altri utenti decidiamo di contattarla, conoscendo alcuni suoi amici chiedo loro di avvisarla.
Emerge che in realtà lei è a conoscenza di questo uso improprio delle sue opere, anzi lo avrebbe più volte notificato a Facebook.
Quello che più sorprende è che la risposta sarebbe stata praticamente “picche”.
Ora immaginate: io riconosco un mio lavoro, faccio una segnalazione per violazione dei diritti d’autore, ma per Facebook è tutto in regola.
Ora speriamo che l’artista possa fare una formale denuncia, anche perché l’idea che la propria opera possa essere anche appesa per i muri delle città, accostandola a ideologie totalmente opposte alle sue, è l’incubo di ogni artista.
Ma ciò che lascia più perplessi è che lo stesso social che si dedica a censurare un capezzolo in un’opera d’arte, permetta che si perpetui sulle sue pagine quello che effettivamente è un reato, cioè la violazione del copyright.
Proprio in Italia, una recente sentenza ha condannato Facebook a un risarcimento proprio per violazione del copyright, speriamo che non si tratti di un caso isolato.
Nel frattempo inviterei tutti a conoscere meglio le opere di questa nota artista statunitense, in modo da capire quanto sia lontana da certe posizioni, magari potreste cominciare proprio dal documentario che dall'opera citata prende il nome, LOVE BITE: Laurie Lipton And Her Disturbing Black & White Drawing.
sabato 13 ottobre 2018
GENERARE IL REPRESSO: POSSESSION DI ANDRZEJ ZULAWSKI
Possession (1981) è un film del regista polacco Andrzey Zulawski, in cui l’elemento gotico/lovecraftiano incontra l’horror psicologico.
Fin dalla sua uscita ha subito svariati tagli dalla censura ed è stato vietato ai minori di 18 anni in quasi tutte le nazioni.
Il gusto è fortemente visionario e macabro, racchiudendo in sé vari sottogeneri, come il thriller, l’horror psicologico, lo splatter, il dramma, il grottesco e il surreale.
Un film complesso a cui non è semplice accostarsi, ma che lascia in ogni caso una forte sensazione di malessere che non potrà essere facilmente dimenticata.
Fondamentalmente è la storia di una coppia in crisi che finisce per autodistruggersi, ma tale vicenda molto sfruttata dal cinema viene rappresentata con una fitta rete di simbolismi celati in ogni inquadratura.
Probabilmente l’elemento più perturbante è il modo in cui viene rappresentata la figura femminile, magistralmente interpretata da Isabelle Adjani: Anna, moglie apparentemente docile, tradisce il marito Mark, il quale vorrà scoprire l’identità dell’amante; in realtà il segreto che nasconde sarà ancor più terribile di quanto lui pensi.
Anna è essenzialmente una donna repressa che cerca il proprio sfogo in una realtà schizofrenica e assurda, il suo alter-ego, il suo vero amante e figlio, è un mostro da lei stessa partorito, in un tripudio di fluidi corporei, nella leggendaria scena nella metropolitana.
Proprio attraverso di esso la donna troverà il suo vero sé, lo sfogo delle proprie frustrazioni di moglie borghese.
La creatura, secondo il desiderio del regista, avrebbe dovuto essere progettata da Hans Ruedi Giger: infatti Zulawski aveva ammirato il suo lavoro in Alien (1979) di Ridley Scott.
L’artista però all’epoca era impegnato, per cui lo mise in contatto con Carlo Rambaldi, con cui aveva collaborato e che conosceva bene la sua opera.
Rambaldi dovette infatti ispirarsi all'arte gigeriana per la realizzazione della creatura, inspirandosi in particolare alla serie di opere chiamata Mordor.
Insieme a Repulsion di Polanski, Possession è la pellicola per eccellenza della repressione e frustrazione femminile, da alcuni critici è stata interpretata come un’opera fortemente misogina, ma avrei dei dubbi in proposito, poiché sarebbe da ritenere piuttosto come la rappresentazione della deriva psicologica che può subire una personalità alla lunga schiacciata da una società che non le permette di esprimere liberamente la propria sessualità.
Inoltre anche il protagonista maschile, Mark, non ne esce fuori particolarmente bene, anzi a volta sembra grottesco e ridicolo all’interno della sur-realtà creata dalla moglie.
La stessa struttura del film si rivela schizoide come la mente della protagonista, passando da una modalità all’altra, dall’orrore puro al melodramma, con continui passaggi d'inquadratura della camera a mano su oggetti apparentemente irrilevanti.
L’attrice inoltre interpreta anche il ruolo di Helen, l’insegnante di Bob (il figlio della coppia) questa ulteriore scissione dell’Io di Anna rappresenta ciò che la società e il marito vorrebbero che fosse.
Ciò che forse ha destato queste critiche di misoginismo è la rappresentazione del corpo femminile come generatore di mostruosità, elemento che comunque compare in diversi capolavori del genere horror, come ad esempio Brood di Cronenberg.
Effettivamente il corpo femminile e la sua capacità di generare possono essere fortemente perturbanti, poiché spesso esso diviene il portale di accesso dell’alterità nel nostro mondo, trasformando la gravidanza in una forma di possessione; ma in realtà questa alterità mostruosa non è altro che l’inconscio represso che non può essere ignorato senza che esploda con esiti distruttivi.
Anna dà dunque vita a se stessa e si accoppia col proprio Es, in una summa del narcisismo che emerge per proteggere il proprio Io dall’esterno, dalla società da cui si difenderà anche a costo della morte.
Emblematico in questo senso sarà il finale che, dopo lo scoppio apocalittico degli istinti nascosti della coppia, si concluderà con una tranquillità catartica e una ricomposizione di un equilibrio perso.
Possession negli anni è diventato un vero e proprio cult, basti pensare che Lynch, ritirando a Venezia il Leone d'Oro alla carriera nel 2006, citò il film di Zulawski definendolo come "la pellicola più completa degli ultimi trent'anni" di cinema.
Pochi altri registi hanno saputo rappresentare con pari turbamento lo disgregamento della famiglia borghese attraverso l’esplosione degli istinti.
Assolutamente consigliato per gli amanti dell’horror psicologico e del cinema che perturba l’animo.
Fin dalla sua uscita ha subito svariati tagli dalla censura ed è stato vietato ai minori di 18 anni in quasi tutte le nazioni.
Il gusto è fortemente visionario e macabro, racchiudendo in sé vari sottogeneri, come il thriller, l’horror psicologico, lo splatter, il dramma, il grottesco e il surreale.
Un film complesso a cui non è semplice accostarsi, ma che lascia in ogni caso una forte sensazione di malessere che non potrà essere facilmente dimenticata.
Fondamentalmente è la storia di una coppia in crisi che finisce per autodistruggersi, ma tale vicenda molto sfruttata dal cinema viene rappresentata con una fitta rete di simbolismi celati in ogni inquadratura.
Probabilmente l’elemento più perturbante è il modo in cui viene rappresentata la figura femminile, magistralmente interpretata da Isabelle Adjani: Anna, moglie apparentemente docile, tradisce il marito Mark, il quale vorrà scoprire l’identità dell’amante; in realtà il segreto che nasconde sarà ancor più terribile di quanto lui pensi.
Anna è essenzialmente una donna repressa che cerca il proprio sfogo in una realtà schizofrenica e assurda, il suo alter-ego, il suo vero amante e figlio, è un mostro da lei stessa partorito, in un tripudio di fluidi corporei, nella leggendaria scena nella metropolitana.
Proprio attraverso di esso la donna troverà il suo vero sé, lo sfogo delle proprie frustrazioni di moglie borghese.
La creatura, secondo il desiderio del regista, avrebbe dovuto essere progettata da Hans Ruedi Giger: infatti Zulawski aveva ammirato il suo lavoro in Alien (1979) di Ridley Scott.
L’artista però all’epoca era impegnato, per cui lo mise in contatto con Carlo Rambaldi, con cui aveva collaborato e che conosceva bene la sua opera.
Rambaldi dovette infatti ispirarsi all'arte gigeriana per la realizzazione della creatura, inspirandosi in particolare alla serie di opere chiamata Mordor.
Carlo Rambaldi mentre realizza la creatura |
H.R. Giger, Mordor VII (1975),Il Golem |
H.R. Giger, Mordor VI (1975) |
Insieme a Repulsion di Polanski, Possession è la pellicola per eccellenza della repressione e frustrazione femminile, da alcuni critici è stata interpretata come un’opera fortemente misogina, ma avrei dei dubbi in proposito, poiché sarebbe da ritenere piuttosto come la rappresentazione della deriva psicologica che può subire una personalità alla lunga schiacciata da una società che non le permette di esprimere liberamente la propria sessualità.
Inoltre anche il protagonista maschile, Mark, non ne esce fuori particolarmente bene, anzi a volta sembra grottesco e ridicolo all’interno della sur-realtà creata dalla moglie.
La stessa struttura del film si rivela schizoide come la mente della protagonista, passando da una modalità all’altra, dall’orrore puro al melodramma, con continui passaggi d'inquadratura della camera a mano su oggetti apparentemente irrilevanti.
L’attrice inoltre interpreta anche il ruolo di Helen, l’insegnante di Bob (il figlio della coppia) questa ulteriore scissione dell’Io di Anna rappresenta ciò che la società e il marito vorrebbero che fosse.
Ciò che forse ha destato queste critiche di misoginismo è la rappresentazione del corpo femminile come generatore di mostruosità, elemento che comunque compare in diversi capolavori del genere horror, come ad esempio Brood di Cronenberg.
Effettivamente il corpo femminile e la sua capacità di generare possono essere fortemente perturbanti, poiché spesso esso diviene il portale di accesso dell’alterità nel nostro mondo, trasformando la gravidanza in una forma di possessione; ma in realtà questa alterità mostruosa non è altro che l’inconscio represso che non può essere ignorato senza che esploda con esiti distruttivi.
Anna dà dunque vita a se stessa e si accoppia col proprio Es, in una summa del narcisismo che emerge per proteggere il proprio Io dall’esterno, dalla società da cui si difenderà anche a costo della morte.
Emblematico in questo senso sarà il finale che, dopo lo scoppio apocalittico degli istinti nascosti della coppia, si concluderà con una tranquillità catartica e una ricomposizione di un equilibrio perso.
Possession negli anni è diventato un vero e proprio cult, basti pensare che Lynch, ritirando a Venezia il Leone d'Oro alla carriera nel 2006, citò il film di Zulawski definendolo come "la pellicola più completa degli ultimi trent'anni" di cinema.
Pochi altri registi hanno saputo rappresentare con pari turbamento lo disgregamento della famiglia borghese attraverso l’esplosione degli istinti.
Assolutamente consigliato per gli amanti dell’horror psicologico e del cinema che perturba l’animo.
venerdì 26 gennaio 2018
MARGARET ATWOOD RICORDA URSULA LE GUIN
Margaret Atwood, autrice di The Handmaid’s Tale, ricorda e omaggia Ursula Le Guin in un articolo su The Guardian:
Sono molto triste per la morte di Ursula K Le Guin. Non solo era una delle più grandi scrittrici del 20 ° secolo - i suoi libri sono molti e ampiamente letti e amati, i suoi premi sono molti e meritati - ma la sua voce sana, impegnata, annoiata, umoristica, sapiente e sempre intelligente ora è molto necessaria .Poco prima di morire, stavo leggendo il suo nuovo libro, No Time to Spare, una raccolta di tristi, divertenti e lirici saggi su tutto, dai gatti alla natura delle convinzioni, all'uso eccessivo della parola "fuck", al fatto che la vecchiaia è davvero per le femminucce - e ho parlato con lei nella mia testa. E se, stavo dicendo - e se scrivessi un pezzo su The Left Hand of Darkness, pubblicato da te nel 1969? Che cosa succede se dico che è un libro che riflette il nostro momento?
Considera: il pianeta di Gethen è diviso. In una delle sue società, il re è pazzo. Abbondano complotti e faide personali abbondano. Un giorno sei nel potente cerchio interno, un altro giorno sei un emarginato. Nell'altra società prevale una burocrazia opprimente e un comitato segreto sa cosa è meglio. Se giudicato un pericolo per l'interesse generale, sei considerato persona non grata ed esiliato in un'enclave carceraria, senza processo o diritto di risposta.
Cosa ne pensi, Ursula? Le ho chiesto nella mia testa. Stavi predicendo qualcosa? Non esattamente, lei rispose. È un esperimento mentale. Ma poi, così è la nostra società. In tutto il suo lavoro, la Le Guin ha sempre fatto la stessa domanda urgente: in che tipo di mondo vuoi vivere? La sua scelta sarebbe stata per l'uguaglianza di genere e di razza, economicamente equa e autonoma, ma non era a disposizione. Avrebbe anche contenuto del sesso e del buon cibo reciprocamente piacevole: c'era una possibilità migliore.
Le Guin è nata nel 1929: una bambina nella depressione, un'adolescente nella seconda guerra mondiale, poi al college subito dopo la guerra, in quel momento che sembrava così pieno dello spirito di rinnovamento. Andò a Radcliffe, uno spazio liminale allora: era Harvard ma non proprio, alle sue donne era permessa qualche partecipazione ma non pieno accesso. Sarebbe passata davanti alla sala da pranzo, dove - gli sarebbe stato detto - gli studenti di sesso maschile erano soliti bersagliare con dei panini qualsiasi femmina che osasse mostrare il suo viso. (Una volta diventata una scrittrice, una scrittrice di fantascienza, tra le altre cose, gli uomini che difendevano quella particolare casa sull'albero continuavano a lanciare panini. Prese nota e non fu divertita.)
Dopo Radcliffe è andata alla scuola di specializzazione, studiando letteratura francese e italiana. Le è stato insegnato a pensare, come si diceva, come un uomo: ampiamente, curiosamente, rigorosamente. Ma dopo essersi sposata e aver lasciato il mondo accademico, si è ritrovata in una società che ha trattato lei e tutte le donne - da un punto di vista legale - come tredicenni irresponsabili. Per quelle a cui era stato insegnato che erano adulte, era come cercare di sigillare un vulcano dentro una scatola di latta. È stata questa generazione di donne americane ad alimentare gran parte del femminismo della seconda ondata della fine degli anni '60 e '70, che è stato quando quella particolare lattina è esplosa. Questo è stato un periodo di grande energia per Le Guin, la scrittrice.
Di recente, non molto tempo prima che Le Guin morisse, mi sono ritrovata a parlare con una donna molto più giovane che piangeva la perdita di un amico. "Leggi la trilogia di Earthsea", suggerii. "Aiuterà." L'ha fatto, e così è stato. Ora seguirò il mio consiglio, e incontrerò di nuovo Ursula nel suo esperimento mentale, e dirò Ave e Addio, e grazie.
È tempo di saggezza da drago.
Ma il pensiero e l'attività politica erano solo una sfaccettatura della vita e del lavoro variegato di questa donna straordinariamente talentuosa. La trilogia di Earthsea, per esempio, è una memorabile esplorazione del rapporto tra la vita e la morte: senza l'oscurità non c'è luce; e la mortalità consente a tutto ciò che è vivo di essere. L'oscurità include i lati nascosti e meno piacevoli di noi stessi - le nostre paure, il nostro orgoglio, la nostra invidia. Ged, il suo eroe, deve affrontare la sua ombra prima che lo divori. Solo allora diventerà completo. Nel processo, deve fare i conti con la saggezza dei draghi: ambigua e non la nostra saggezza, ma nondimeno si tratta di saggezza.
giovedì 20 luglio 2017
ADDIO A GEORGE ROMERO: IL PADRE DEI MORTI VIVENTI
Il 16 luglio ci ha lasciati George Romero, il padre dei morti viventi.
"Living deads" e non "zombies", come il regista teneva a specificare, nonostante nella nostra cultura i due termini avessero finito per combaciare.
In un'intervista di alcuni anni fa (che potete leggere al seguente link), asseriva:
"Non li ho mai chiamato “zombie”, i miei ragazzi erano i “vicini”, gente che conosci e a cui tieni. Essenzialmente le regole erano cambiate ed erano diventati dei morti viventi. Così pensavo di aver creato qualcosa di nuovo, ma tutti da allora li hanno definiti “zombie”, così adesso lo sono, anche se non posso che necessariamente debbano essere chiamati in questo modo, perché gli zombie non sono morti, mentre i miei ragazzi lo erano senza dubbio!".
Il suo Night of the Living Dead, uscito nel 1968, è diventato un vero e proprio cult, tanto da essere selezionato dalla Library of Congress per la preservazione nel National Film Registry come film esteticamente "significativo".
Realizzato con mezzi amatoriali e un bassissimo budget, incassò 18 milioni di dollari in tutto il mondo.
Nato e cresciuto a New York, da padre cubano di remote
origini spagnole e da madre statunitense di origini lituane, Romero studia alla
Carnegie Mellon University di Pittsburgh, Pennsylvania. Dopo essersi diplomato,
inizia a girare diverse pellicole, perlopiù cortometraggi e pubblicità. Insieme
ad alcuni amici forma la Image Ten Productions nei tardi anni sessanta. Mettono
insieme circa 10.000 dollari per produrre quello che sarebbe diventato uno dei
più celebri film horror di tutti i tempi, scritto da Romero insieme a John A.
Russo: La notte dei morti viventi
(1968). Il film divenne un vero e proprio cult negli anni settanta ed è
considerato anche il film che ha codificato il genere zombie movie.
Dopo aver girato There's
Always Vanilla (1971), La città verrà
distrutta all'alba (1973), La
stagione della strega (1973) e Wampyr
(1977), nel 1978 tornò al genere zombi, con Zombi
(1978). Girato con un budget di solo 1,5 milioni di dollari, il film ne incassò
oltre 40, ed è stato inserito nella lista dei film cult più importanti dalla
rivista Entertainment Weekly nel 2003. Dopo Creepshow
(1982) Romero completò la sua "Trilogia dei morti viventi" nel 1985
con Il giorno degli zombi. In seguito
dirige Monkey Shines - Esperimento nel
terrore e il film a episodi con Dario Argento Due occhi diabolici. Nel 1993 dirige La metà oscura. Il regista torna a dirigere un film solo dopo sette
anni, con Bruiser - La vendetta non ha
volto, che non ha successo né di critica né di pubblico.
Romero ha girato nel 2006 il quarto capitolo della sua serie
sugli zombi, La terra dei morti viventi,
una produzione di 16 milioni di dollari (il più alto della sua carriera). A La terra dei morti viventi hanno fatto
seguito Le cronache dei morti viventi (2007),
girato in digitale, e Survival of the
Dead - L'isola dei sopravvissuti (2009) che è stato presentato in anteprima
mondiale alla 66ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia.
venerdì 30 dicembre 2016
Una serata contro la violenza di genere
Stasera, alle ore 17,30, presso Progetto Auto di Scerne di Pineto presentazione del volume antologico “Eva non è sola” e della mostra fotografica “Fuori dall'ombra”. Una location inusuale per due progetti importanti. Si parlerà di violenza di genere e di donne che emergono dall'ombra in compagnia del fotografo Cristian Palmieri e di alcune autrici di Eva non è sola, fra le quali Sabrina Abeni, Lucia Guida, Roberta Andres, Annarita Petrino e Lorena Marcelli, ideatrice e curatrice del progetto stesso.
“Eva non è sola” è una raccolta di testi di 30 autori, composta da 23 racconti e 7 poesie. 30 autori provenienti da tutta Italia che si sono uniti a Lorena Marcelli, scrittrice e promotrice del progetto. 30 autori che hanno raccolto le loro voci, le loro storie e le loro poesie in un’antologia il cui ricavato di vendita sarà devoluto ad associazioni e centri antiviolenza abruzzesi.
“Fuori dall'ombra” è un progetto fotografico di Cristian Palmieri composto da 48 ritratti a grandezza naturale di donne italiane e non solo. 48 protagoniste di oggi, madri, figlie, lavoratrici, ricercatrici, estete, artiste, muse. Donne come tante valorizzate dalla società contemporanea a cui appartengono e spesso da quest’ultima vessate e poi ancora messe da parte e rigettate di nuovo nella rete di fatti di cronaca che la vuole “vittima”.
L’obiettivo comune dei due progetti è quello di sensibilizzare la società attraverso l’arte, la cultura, il dibattito, il dialogo, la condivisione, per noi e per le generazioni future.
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