mercoledì 14 agosto 2019

MIDSOMMAR: L’ORRORE DELLA LUCE



Ammetto che non avevo reagito alla visione di Hereditary con lo stesso entusiasmo della 

maggioranza delle persone.

Non equivocate: si vedeva che Ari Aster aveva del talento registico, ma avevo notato alcune 

ingenuità, che avevo attribuito alla poca esperienza, per cui mi ero riservata ulteriori giudizi 

dopo la visione di una sua successiva opera.

Ora lo posso dire senza problemi: Ari Aster è una delle promesse più interessanti del 

panorama registico.

Probabilmente la sua opera prima era ancora legata a quelli che erano i suoi riferimenti 

cinematografici, che aveva cercato di riprodurre e omaggiare, ma con Midsommar: Il 

villaggio dei dannati è finalmente uscita fuori quella che è la sua cifra stilistica, l’impronta 

che lo rende diverso dalla massa e porta il suo cinema nell'universo autoriale.

Anche qui emergono alcuni riferimenti del cinema del passato, soprattutto The Wicker Man 

di Robin Hardy, ma il tutto viene rielaborato in modo del tutto originale e convincente.

Ciò che emerge immediatamente, come già si era potuto osservare in Hereditary, è il gusto 

per la fotografia e l’inquadratura artistica, caratteristiche insolite da trovare nell'horror 

contemporaneo.

Interessante è il ribaltamento della visione del perturbante legata al buio e alle atmosfere 

tetre: qui l’orrore si svolge sotto la piena luce del sole di mezzanotte scandinavo, il bianco 

abbagliante, la natura in fiore e l’idillio diventano fonte di paura, attraverso squarci visivi 

psichedelici.


La storia sembra semplice: quattro ragazzi studenti di antropologia e la fidanzata di uno di

loro, studentessa di psicologia, decidono di passare una vacanza studio in una sorta di

comune  svedese, in cui è cresciuto uno di loro, per assistere alla festa di mezza estate.

Inizialmente la ragazza, con alle spalle dei lutti di famiglia e una storia di depressione, 

sembra quasi isolata rispetto alla camerata maschile, fatta eccezione per il giovane 

proveniente da questa comunità, che pare mostrarsi comprensivo verso il suo dolore.

Il rapporto conflittuale maschile/femminile, già presente in Hereditary, tende a 

ripresentarsi anche qui, con conseguenze imprevedibili.

Non è una caso che tale combriccola, spiccatamente machista, sia destinata a soccombere 

quando entra in contatto con una comunità ancestrale, pagana e fondamentalmente legata 

al culto della Dea Madre.



In tale contesto sono le donne a reggere le fila: sono loro a decidere con quali uomini unirsi, 

quali salvare e quali condannare, mentre gli studenti sono destinati a essere dei fantocci tra 

le loro mani, portati a intraprendere un percorso deciso per loro.

Inevitabilmente si arriva, verso il finale, verso l’esplodere grottesco delle emozioni, come 

era già accaduto in Hereditary, lasciandomi alquanto perplessa; ma in questo caso il tutto 

assume un senso (e ripensandoci allora la cosa era stata voluta anche nel film precedente).


Perché si è capito che per Aster le emozioni esplodono senza filtri, in questo caso diventano 

motivo di partecipazione di una comunità che vive il dolore di uno sulla propria pelle, che 

permette alla parte oscura di emergere prepotentemente, diventando occasione di 

condivisione.

La follia per Aster è una marea che travolge lo spettatore in pieno viso, lasciandoti confuso e 

impreparato a tale impatto, tracciando quello che ormai potremmo identificare come suo 

tratto stilistico.

Ma ormai è chiaro che il suo cinema necessita dell’abbassamento delle nostre difese 

psicologiche per poterlo davvero comprendere.







0 commenti:

Posta un commento