Ammetto che non avevo reagito alla visione di Hereditary con lo
stesso entusiasmo della
maggioranza delle persone.
Non
equivocate: si vedeva che Ari Aster aveva del talento registico, ma
avevo notato alcune
ingenuità, che avevo attribuito alla poca
esperienza, per cui mi ero riservata ulteriori giudizi
dopo la
visione di una sua successiva opera.
Ora lo
posso dire senza problemi: Ari Aster è una delle promesse più
interessanti del
panorama registico.
Probabilmente
la sua opera prima era ancora legata a quelli che erano i suoi
riferimenti
cinematografici, che aveva cercato di riprodurre e
omaggiare, ma con Midsommar: Il
villaggio dei dannati è finalmente uscita fuori quella che è
la sua cifra stilistica, l’impronta
che lo rende diverso dalla
massa e porta il suo cinema nell'universo autoriale.
Anche
qui emergono alcuni riferimenti del cinema del passato, soprattutto The Wicker Man
di Robin Hardy, ma il tutto viene rielaborato in modo
del tutto originale e convincente.
Ciò
che emerge immediatamente, come già si era potuto osservare in
Hereditary, è il gusto
per la fotografia e l’inquadratura
artistica, caratteristiche insolite da trovare nell'horror
contemporaneo.
Interessante
è il ribaltamento della visione del perturbante legata al buio e
alle atmosfere
tetre: qui l’orrore si svolge sotto la piena luce
del sole di mezzanotte scandinavo, il bianco
abbagliante, la natura in fiore e l’idillio
diventano fonte di paura, attraverso squarci visivi
psichedelici.
La
storia sembra semplice: quattro ragazzi studenti di antropologia e la
fidanzata di uno di
loro, studentessa di psicologia, decidono di passare una vacanza studio in una sorta di
comune svedese, in cui è cresciuto uno di loro, per assistere alla festa di mezza estate.
loro, studentessa di psicologia, decidono di passare una vacanza studio in una sorta di
comune svedese, in cui è cresciuto uno di loro, per assistere alla festa di mezza estate.
Inizialmente
la ragazza, con alle spalle dei lutti di famiglia e una storia di
depressione,
sembra quasi isolata rispetto alla camerata maschile,
fatta eccezione per il giovane
proveniente da questa comunità, che
pare mostrarsi comprensivo verso il suo dolore.
Il
rapporto conflittuale maschile/femminile, già presente in
Hereditary, tende a
ripresentarsi anche qui, con conseguenze
imprevedibili.
Non è
una caso che tale combriccola, spiccatamente machista, sia destinata
a soccombere
quando entra in contatto con una comunità ancestrale,
pagana e fondamentalmente legata
al culto della Dea Madre.
In tale contesto sono le donne a reggere le fila: sono loro a
decidere con quali uomini unirsi,
quali salvare e quali condannare,
mentre gli studenti sono destinati a essere dei fantocci tra
le loro
mani, portati a intraprendere un percorso deciso per loro.
Inevitabilmente
si arriva, verso il finale, verso l’esplodere grottesco delle
emozioni, come
era già accaduto in Hereditary, lasciandomi alquanto
perplessa; ma in questo caso il tutto
assume un senso (e ripensandoci
allora la cosa era stata voluta anche nel film precedente).
Perché
si è capito che per Aster le emozioni esplodono senza filtri, in
questo caso diventano
motivo di partecipazione di una comunità che
vive il dolore di uno sulla propria pelle, che
permette alla parte
oscura di emergere prepotentemente, diventando occasione di
condivisione.
La
follia per Aster è una marea che travolge lo spettatore in pieno
viso, lasciandoti confuso e
impreparato a tale impatto, tracciando
quello che ormai potremmo identificare come suo
tratto stilistico.
Ma
ormai è chiaro che il suo cinema necessita dell’abbassamento delle
nostre difese
psicologiche per poterlo davvero comprendere.
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