domenica 8 settembre 2019
THE NEST, IL NIDO: IL REVIVAL GOTICO ITALIANO
In questi ultimi anni sono uscite opere italiane che stanno facendo ben sperare sulla rinascita del cinema italiano.
Film come lo chiamavano Jeeg Robot e Lazzaro felice sono state delle luci improvvise nel grigiore monotono del nostro cinema; altra opera che fa ben sperare è questo lungometraggio di Ferdinando De Feo, il primo che realizza da solo, che reinterpreta il genere gotico: The Nest-Il Nido.
Uscito in un periodo non proprio propizio per i film in sala, il 15 di agosto, si è rivelato un’opera prima interessante e per niente scontata.
La storia è quella di un bambino e una madre che vivono in una tenuta isolata dal mondo, insieme a poche altre persone.
Non sappiamo quale sia la minaccia che li tiene relegati lì, sta di fatto che il ragazzino, apparentemente paraplegico, non può lasciare la proprietà.
Si presentano però due problemi: Samuel, il bambino, sta entrando nella fase puberale in cui la ribellione e la voglia di libertà si fanno pressanti, inoltre giunge Denise, una ragazzina poco più grande di lui e con lei il mondo esterno che la madre era fino ad allora riuscita a tenere fuori dalla proprietà.
Tale contrapposizione viene rappresentata dalla musica: quella classica che Samuel ha imparato a suonare al pianoforte e quella contemporanea, scoperta clandestinamente attraverso il lettore della ragazza, in particolare il brano Where Is My Mind dei Pixies.
Denise rappresenta la soglia verso l’età adulta, la scoperta della sessualità e dell’autonomia, per questo inizialmente la madre la percepisce come una minaccia, salvo poi cercare di “addomesticarla” per renderla accettabile per la società da lei creata.
Ma non è così che la vuole Samuel, per questo deciderà di conquistare quella libertà che gli è stata negata.
A quale costo?
Il finale a sorpresa rivelerà gli aspetti contraddittori dell’autonomia e della ribellione, spiegando gran parte degli elementi lasciati in sospeso nel corso del film.
La recitazione è apprezzabile, magistrale la fotografia di Emanuele Pasquet che enfatizza le atmosfere gotiche della tenuta.
Emergono chiari i riferimenti a film come The Others di Amenàbar e The Village di Shyamalan, in alcune scene del film la fotografia ricorda il lavoro di Luciano Tovoli in Suspiria di Dario Argento.
Alcuni elementi della trama sono comunque rimasti in sospeso ed emergono qua e là delle contraddizioni, ma è comunque una buona opera prima che fa ben sperare per le prossime opere del regista.
RED KROKODIL: DISFACIMENTO DEL CORPO E NON SOLO...
Red Krokodil è un film di Domiziano Cristopharo del 2012, realizzato
con un budget risicatissimo (1000 euro), girato senza una vera troupe
e in un unico set.
Alla sua base
troviamo l’atmosfera claustrofobica e di marcescenza, girando
attorno alla recitazione di un unico attore, Brock Madson.
Il red krokodil è
una droga che dalla Russia si è diffusa in tutto il mondo
occidentale, nota per provocare lacerazioni ai tessuti di chi la
assume.
Il protagonista
infatti trascorre le sue giornate in un continuo trip da questa
sostanza, mentre il suo corpo sta lentamente marcendo.
Le luci sono fredde
e riflettono quell’atmosfera di disfacimento e lordume in cui
l’uomo trascina le sue giornate, non ci sono dialoghi, ma solo una
voce fuori campo che commenta le sue sensazioni.
Ma un altro tema si
innesta a quello della tossicodipendenza: l’uomo infatti vede dalla
propria finestra immagini della città di Chernobyl, simbolo della
distruzione che l’essere umano provoca non solo su se stesso, ma su
tutto ciò che lo circonda.
Un’opera quindi
sull’annientamento, sulla fascinazione per l’autodistruzione in
nome di piacere fugaci, che siano dei trip da droga, i soldi o il
potere.
Protagonista è il
corpo, sempre nudo e man mano più decadente, ma allo stesso tempo
desideroso di ritrovare un’innocenza perduta, che finisce per
accostare il protagonista a una sorta di Cristo contemporaneo in
cerca del martirio per purificarsi.
Un’opera dunque
originale nella sua essenzialità, cruda e commovente.
Non aspettatevi un
qualsiasi film horror, perché è nel dramma e nella sofferenza che
trova la sua motivazione.
Nel finale, che non
vi spoilero, torna l’accostamento a Chernobyl, aprendosi a diverse
interpretazioni che sicuramente vi faranno riflettere.
mercoledì 14 agosto 2019
MIDSOMMAR: L’ORRORE DELLA LUCE
Ammetto che non avevo reagito alla visione di Hereditary con lo
stesso entusiasmo della
maggioranza delle persone.
Non
equivocate: si vedeva che Ari Aster aveva del talento registico, ma
avevo notato alcune
ingenuità, che avevo attribuito alla poca
esperienza, per cui mi ero riservata ulteriori giudizi
dopo la
visione di una sua successiva opera.
Ora lo
posso dire senza problemi: Ari Aster è una delle promesse più
interessanti del
panorama registico.
Probabilmente
la sua opera prima era ancora legata a quelli che erano i suoi
riferimenti
cinematografici, che aveva cercato di riprodurre e
omaggiare, ma con Midsommar: Il
villaggio dei dannati è finalmente uscita fuori quella che è
la sua cifra stilistica, l’impronta
che lo rende diverso dalla
massa e porta il suo cinema nell'universo autoriale.
Anche
qui emergono alcuni riferimenti del cinema del passato, soprattutto The Wicker Man
di Robin Hardy, ma il tutto viene rielaborato in modo
del tutto originale e convincente.
Ciò
che emerge immediatamente, come già si era potuto osservare in
Hereditary, è il gusto
per la fotografia e l’inquadratura
artistica, caratteristiche insolite da trovare nell'horror
contemporaneo.
Interessante
è il ribaltamento della visione del perturbante legata al buio e
alle atmosfere
tetre: qui l’orrore si svolge sotto la piena luce
del sole di mezzanotte scandinavo, il bianco
abbagliante, la natura in fiore e l’idillio
diventano fonte di paura, attraverso squarci visivi
psichedelici.
La
storia sembra semplice: quattro ragazzi studenti di antropologia e la
fidanzata di uno di
loro, studentessa di psicologia, decidono di passare una vacanza studio in una sorta di
comune svedese, in cui è cresciuto uno di loro, per assistere alla festa di mezza estate.
loro, studentessa di psicologia, decidono di passare una vacanza studio in una sorta di
comune svedese, in cui è cresciuto uno di loro, per assistere alla festa di mezza estate.
Inizialmente
la ragazza, con alle spalle dei lutti di famiglia e una storia di
depressione,
sembra quasi isolata rispetto alla camerata maschile,
fatta eccezione per il giovane
proveniente da questa comunità, che
pare mostrarsi comprensivo verso il suo dolore.
Il
rapporto conflittuale maschile/femminile, già presente in
Hereditary, tende a
ripresentarsi anche qui, con conseguenze
imprevedibili.
Non è
una caso che tale combriccola, spiccatamente machista, sia destinata
a soccombere
quando entra in contatto con una comunità ancestrale,
pagana e fondamentalmente legata
al culto della Dea Madre.
In tale contesto sono le donne a reggere le fila: sono loro a
decidere con quali uomini unirsi,
quali salvare e quali condannare,
mentre gli studenti sono destinati a essere dei fantocci tra
le loro
mani, portati a intraprendere un percorso deciso per loro.
Inevitabilmente
si arriva, verso il finale, verso l’esplodere grottesco delle
emozioni, come
era già accaduto in Hereditary, lasciandomi alquanto
perplessa; ma in questo caso il tutto
assume un senso (e ripensandoci
allora la cosa era stata voluta anche nel film precedente).
Perché
si è capito che per Aster le emozioni esplodono senza filtri, in
questo caso diventano
motivo di partecipazione di una comunità che
vive il dolore di uno sulla propria pelle, che
permette alla parte
oscura di emergere prepotentemente, diventando occasione di
condivisione.
La
follia per Aster è una marea che travolge lo spettatore in pieno
viso, lasciandoti confuso e
impreparato a tale impatto, tracciando
quello che ormai potremmo identificare come suo
tratto stilistico.
Ma
ormai è chiaro che il suo cinema necessita dell’abbassamento delle
nostre difese
psicologiche per poterlo davvero comprendere.
giovedì 1 agosto 2019
NEOSURREALISMI, FASCISMI E DIRITTI D'AUTORE: Fare arte al tempo del populismo e dei social.
Stavo scorrendo come tutti i giorni la mia home di Facebook, quando m’imbatto in un gruppo in questo manifesto di Forza Nuova, postato dal gruppo Abolizione del suffragio universale, ovviamente accompagnato da parole d'indignazione.
Niente di sorprendente: la solita accozzaglia di luoghi comuni, populismo e omofobia, ma non è quello ad attirare la mia attenzione.
L’immagine utilizzata per il manifesto ha qualcosa di famigliare e, leggendone i commenti, scopro che qualcun altro l’ha riconosciuta: si tratta infatti di un’opera d’arte di Laurie Lipton, Love Bite.
Conoscendo l’artista dubito fortemente che sia stata utilizzata col suo consenso.
Laurie Lipton è una delle regina dell’arte neosurrealista macabra, con una forte denuncia verso le derive populiste e conservatrici della società, oltre che del progresso disumanizzante.
Qualcuno scrive sulla pagina di Forza Nuova di tale violazione, come risposta, invece di rimuovere l’immagine, l’utente viene bannato.
Io e altri utenti decidiamo di contattarla, conoscendo alcuni suoi amici chiedo loro di avvisarla.
Emerge che in realtà lei è a conoscenza di questo uso improprio delle sue opere, anzi lo avrebbe più volte notificato a Facebook.
Quello che più sorprende è che la risposta sarebbe stata praticamente “picche”.
Ora immaginate: io riconosco un mio lavoro, faccio una segnalazione per violazione dei diritti d’autore, ma per Facebook è tutto in regola.
Ora speriamo che l’artista possa fare una formale denuncia, anche perché l’idea che la propria opera possa essere anche appesa per i muri delle città, accostandola a ideologie totalmente opposte alle sue, è l’incubo di ogni artista.
Ma ciò che lascia più perplessi è che lo stesso social che si dedica a censurare un capezzolo in un’opera d’arte, permetta che si perpetui sulle sue pagine quello che effettivamente è un reato, cioè la violazione del copyright.
Proprio in Italia, una recente sentenza ha condannato Facebook a un risarcimento proprio per violazione del copyright, speriamo che non si tratti di un caso isolato.
Nel frattempo inviterei tutti a conoscere meglio le opere di questa nota artista statunitense, in modo da capire quanto sia lontana da certe posizioni, magari potreste cominciare proprio dal documentario che dall'opera citata prende il nome, LOVE BITE: Laurie Lipton And Her Disturbing Black & White Drawing.
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Il manifesto di Forza Nuova |
Niente di sorprendente: la solita accozzaglia di luoghi comuni, populismo e omofobia, ma non è quello ad attirare la mia attenzione.
L’immagine utilizzata per il manifesto ha qualcosa di famigliare e, leggendone i commenti, scopro che qualcun altro l’ha riconosciuta: si tratta infatti di un’opera d’arte di Laurie Lipton, Love Bite.
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Love Bite, Laurie Lipton |
Conoscendo l’artista dubito fortemente che sia stata utilizzata col suo consenso.
Laurie Lipton è una delle regina dell’arte neosurrealista macabra, con una forte denuncia verso le derive populiste e conservatrici della società, oltre che del progresso disumanizzante.
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Laurie Lipton |
Qualcuno scrive sulla pagina di Forza Nuova di tale violazione, come risposta, invece di rimuovere l’immagine, l’utente viene bannato.
Io e altri utenti decidiamo di contattarla, conoscendo alcuni suoi amici chiedo loro di avvisarla.
Emerge che in realtà lei è a conoscenza di questo uso improprio delle sue opere, anzi lo avrebbe più volte notificato a Facebook.
Quello che più sorprende è che la risposta sarebbe stata praticamente “picche”.
Ora immaginate: io riconosco un mio lavoro, faccio una segnalazione per violazione dei diritti d’autore, ma per Facebook è tutto in regola.
Ora speriamo che l’artista possa fare una formale denuncia, anche perché l’idea che la propria opera possa essere anche appesa per i muri delle città, accostandola a ideologie totalmente opposte alle sue, è l’incubo di ogni artista.
Ma ciò che lascia più perplessi è che lo stesso social che si dedica a censurare un capezzolo in un’opera d’arte, permetta che si perpetui sulle sue pagine quello che effettivamente è un reato, cioè la violazione del copyright.
Proprio in Italia, una recente sentenza ha condannato Facebook a un risarcimento proprio per violazione del copyright, speriamo che non si tratti di un caso isolato.
Nel frattempo inviterei tutti a conoscere meglio le opere di questa nota artista statunitense, in modo da capire quanto sia lontana da certe posizioni, magari potreste cominciare proprio dal documentario che dall'opera citata prende il nome, LOVE BITE: Laurie Lipton And Her Disturbing Black & White Drawing.
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