giovedì 26 dicembre 2013

26 DICEMBRE 1716: NASCE THOMAS GRAY


Thomas Gray, poeta inglese appartenente alla Scuola cimiteriale, nacque a Londra il 26 dicembre 1716  e visse con la madre dopo che questa lasciò il violento marito. Studiò all'Eton College, e diventò studente prima a Peterhouse e successivamente al Pembroke College di Cambridge. Durante i suoi studi fece la conoscenza di Horace Walpole, che accompagnò durante il suo viaggio formativo
in Europa. Tale viaggio era una consuetudine per i figli di famiglie benestanti per completare la loro educazione.
Gray passò la maggior parte della sua vita come studioso a Cambridge e solo molto più tardi, continuò a viaggiare.
Nonostante fosse uno dei poeti meno produttivi (tutte le sue opere pubblicate durante la sua vita non raggiungono nemmeno le 1000 righe), è stato, assieme a William Collins, la figura predominante
della metà del XVIII secolo. Nel 1757, gli fu offerto il titolo di poeta laureato che però rifiutò. Nel 1768 egli succedette a Lawrence Brockett come Professore Regio di Storia a Cambridge, occupazione che non richiedeva una grande responsabilità. Morì a Cambridge il 30 luglio 1771.

"Elegia scritta in un cimitero campestre"
Il componimento più celebre di Gray, "Elegia scritta in un cimitero campestre" (Elegy Written in a Country
Churchyard composta nel 1751 probabilmente nel cimitero di Stoke Poges, è diventata un'importante parte del patrimonio letterario inglese. Ancor oggi è una delle poesie più citate della lingua inglese. Si dice che prima della battaglia sulla piana di Abraham, il generale inglese James Wolfe recitò questa poesia ai suoi soldati, aggiungendo "Signori, avrei preferito scrivere questa poesia che conquistare il Quebec domani".
Gray è riuscito a fondere forme tradizionali e dizione poetica con nuovi argomenti e modi d'espressione, diventando uno dei precursori del revival romantico.
L'Elegia fu subito notata per la sua bellezza ed i poeti della scuola cimiteriale furono così chiamati per i loro
componimenti, scritti sulla base della poesia di Gray.

Ut quimus, aiunt; quando, ut volumus, non licet.
Ter. Andr.

E L E G I A

SCRITTA

IN UN

CIMITERO CAMPESTRE.



Segna la squilla il dì, che già vien manco;
Mugghia l’armento, e via lento erra e sgombra;
Torna a casa il bifolco inchino e stanco,
4Et a me lascia il mondo e a la fosc’ombra.

Già fugge il piano al guardo, e gli s’invola,
E de l’aere un silenzio alto s’indonna,
Fuor’ve lo scarabon ronzando vola,
8E un cupo tintinnir gli ovili assonna;

E d’erma torre il gufo ognor pensoso
Si duole, al raggio de la luna amico,
Di chi, girando il suo ricetto ombroso,
12Gli turba il regno solitario antico.

Di que’ duri olmi a l’ombra, e di quel tasso,
Ve s’alzan molte polverose glebe,
Dorme per sempre, in loco angusto e basso,
16De la villa la rozza antica plebe.

L’aura soave del nascente giorno,
Di rondine il garrir su rozzo tetto,
Del gallo il canto, o il rauco suon del corno
20Più non gli desterà da l’umil letto.

Per lor non più arde il foco, o attenta madre
A le sue cure vespertine attende:
La balba famigliuola in grembo al padre
24Non repe, e baci invidiati prende.

Spesso a la falce lor cesse il ricolto,
Spesso domar le dure zolle i ferri.
Come lieti lor tiro al campo han volto!
28Com’ piegar sotto a’ gravi colpi i cerri!

Non beffi l’opre lor fasto superbo,
L’oscura sorte, i rustici diletti,
E non ascolti con sorriso acerbo
32De’ poverelli i brevi annali e schietti.

Qual per sangue, e real pompa s’onora,
Quanto mai l’or, quanto beltà dar possa,
L’istessa aspetta inevitabil’ora.
36Anco la via d’onor guida a la fossa.

Nè tu sprezzar, o altier, cotesta tomba,
Se non orna trofeo l’ossa sepolte,
Nè bell’inno di lode alto rimbomba
40Per lunghe logge, e istoriate volte.

Puote forse opra di scarpello arguto
Richiamar l’alma a la sua spoglia ignuda?
O può canto eccitare il cener muto,
44E allettar morte inesorabil cruda?

Forse in questo negletto angolo alberga
Spirto già pieno d’un ardor celeste;
O man degna che tratti real verga,
48E vocal cetra a nobil canto deste.

Ma lor Sofìa non svolse il gran volume,
Che ’l tempo di sue spoglie ornò e distinse.
Tarpò al bell’estro povertà le piume,
52E ’l corso a l’alme con suo gelo strinse.


Chiare vie più che bel raggio sereno
Chiude il mar gemme entro a’ suoi cupi orrori;
E non veduti fior tingono il seno,
56E per solingo ciel spargon gli odori.

Forse un rustico Ambdèno ha qui l’avello,
Che al tiran de’ suoi campi oppose il petto,
Un oscuro Miltone, od un Cromuello,
60Non mai del sangue de la Patria infetto.

Tener grave Senato intento e fiso,
Di duolo e danni non temer minaccia,
Sparger su regni con la copia il riso,
64E la sua vita altrui leggere in faccia,

Vietò lor sorte: pur se non concede
Che virtù emerga, fa che ’l vizio langue.
Quindi nessun la via chiuse a mercede,
68Empio, nè al trono unqua nuotò pel sangue.

Nessun di coscienza il verme rio
Compresse, o spense un candido rossore;
Nè incensi al lutto, e a la superbia offrio,
72Arsi a la fiamma de le sacre Suore.

Lunge dal popolar tumulto insano
Non mai torsero il piè dal dritto calle,
Seguendo il corso lor tranquillo e piano,
76Per l’erma de la vita opaca valle.

Pur a difender da villano insulto
Quest’ossa, eretto alcun sasso vicino,
D’incolte rime, e rozze forme sculto,
80Qualche sospir richiede al peregrino.

I nomi e gli anni, senza studio ed arte,
Di carmi in vece, indotta man vi segna,
E con sacre sentenze intorno sparte,
84Al buon cultore di morire insegna.

Chi mai chi de l’oblio nel fosco velo
Questa affannosa amabil vita avvolse,
E lasciò le contrade alme del cielo,
88Nè un sospiroso sguardo indietro volse?

Posa, spirando, in grembo amico e fido
L’alma, e chiede di pianto alcuna stilla.
Da la tomba anco alza natura il grido,
92E sotto il cener freddo amor sfavilla.

Ma se di te, che in semplice favella
Narri storia di gente oscura umìle,
Fia che brami saper qualche novella
96Quà giunto a forte spirto ermo e gentile;

Spesso, forse dirà Pastor canuto,
La rugiada crollar giù da l’erbetta,
Frettoloso in su l’alba i’ l’ho veduto,
100Per incontrare il Sol su l’alta vetta.

Sotto quell’ondeggiante antico faggio,
Che radici ha bizzarre e sì profonde,
Prosteso e lento, al più cocente raggio,
104Fiso ascoltava il mormorar de l’onde.

Ora ridente di schernevol riso
Movea presso quel bosco il passo errante,
Mormorando sue fole, or mesto in viso,
108O pien di cure, o disperato amante.

Una mattina in su l’usato monte
Io più nol vidi al caro arbore appresso:
Venne poi l’altra, e pur in quella al fonte
112Non si mostrò, nè al poggio, o al bosco istesso.

La terza al fin con lenta pompa e tetra
Portar si vide al tempio: or t’avvicina,
E leggi tu, che ’l fai, scolpito in pietra
116Lo scritto, sotto quell’antica spina.

Giovane a fama ignoto et a fortuna
Qui vien che in grembo de la terra dorma.
Sofìa non isdegnò sua bassa cuna,
120E tristezza il segnò de la sua forma.

Sincero era il suo cuore, e di pietate
(E dal ciel n’ebbe ampia mercede) ardea.
Un sospir, quanto avea, diè a povertate,
124E un amico impetrò, quanto chiedea.

Più oltre non cercar, nè d’ir scoprendo
Ti studia le sue buone, o le triste opre.
Fra la speme e ’l timor, nel sen tremendo
128Di Dio si stanno, e denso vel le cuopre.

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